Un platform storico e rivoluzionario per molti motivi: dagli innovativi modelli prerenderizzati, all'estetica generale, al feeling di gioco piacevolissimo e ancora alla colonna sonora di David Wise che chiude ad arte il cerchio di un'esperienza sfidante e gratificante come poche nel suo genere. Sono stato tuttavia costretto a togliere mezza stella dopo aver iniziato il secondo capitolo della serie, Donkey Kong Country 2: Diddy's Kong Quest, che è stato in grado di perfezionare praticamente ogni aspetto del gioco e, di conseguenza, di mettere in luce il poco che di perfettibile c'era nel primo capitolo.
Come fa notare anche SNES drunk nel suo video dedicato alla serie (che non linko perchè non so come si fa, porca madonna), il problema principale - e critico in poche sezioni specifiche - di Donkey Kong Country è... Donkey Kong stesso.
Lo scimmione protagonista è infatti piuttosto ingombrante se confrontato con lo snello compagno Diddy Kong, e in un gioco mediamente punitivo che richiede grande attenzione sulla precisione e sul timing dei movimenti questo fattore può diventare una causa di frustrazione non da poco, agilmente risolto con il secondo gioco della serie in cui Donkey Kong viene magicamente RAPITO e sostituito da Dixie Kong, un nuovo personaggio minuto e agile al pari di Diddy Kong.
Se, quindi, la frustrazione data dalla difficoltà di base del titolo si traduce spesso in sincere risate dopo sezioni volutamente esagerate e punitive, ma comunque estremamente gratificanti, l'esperienza può essere in parte minata dalla goffaggine e dalle dimensioni di Donkey Kong che non sempre si adattano perfettamente alle esigenze del gameplay. Questo rimane comunque un neo abbastanza circoscrivibile a determinate situazioni e in gran parte aggirabile impostando Diddy Kong come personaggio giocante, per il resto è un classico assolutamente imperdibile.

Probabilmente una tra le esperienze più singolari e divertenti all'interno del panorama attuale dei punta e clicca.
Jacob Janerka dimostra di aver preso il meglio dalla comicità dei classici della LucasArts e di essere riuscito ad innovarla con un gusto decisamente personale, estremizzando gli elementi postmoderni che già erano presenti agli albori del genere e unendola ad un'estetica surreale da discarica di cultura sci-fi e cyberpunk che riesce a non scadere mai nella retromania o nella banale parodia.
Quello che un po' manca, forse, è invece una certa complessità e ricercatezza nelle meccaniche di base del genere e nei puzzle, che portano il titolo ad essere piuttosto lineare e poco vario, nonostante compensi ampiamente dal punto di vista delle gag e di virtuosismi sul piano grafico e artistico in generale.
Nel complesso è comunque un'avventura molto originale e decisamente soddisfacente.

Tante idee molto confuse. La sufficienza gliela metto perché sicuramente i brutti giochi sono altri, ma è abbastanza impossibile non concordare sul fatto che all'interno della saga principale è il capitolo più debole. Non faccio fatica a comprendere i sospetti (fondati o meno, questo non si sa), che fosse partito come progetto originale e poi forzatamente inserito all'interno del franchise: il sistema di movimento e di combattimento più mirato ad un approccio action, l'alternanza tra fasi in prima e in terza persona e la piuttosto relativa aderenza agli stilemi degli altri capitoli lo rendono un gioco bizzarro all'interno della serie, e se mettiamo insieme tutti questi fattori ne viene fuori un gioco singolare a tutti gli effetti. I punti di forza sono pochi, ma ci sono: il concept è veramente originale, la narrazione ben orchestrata e l'atmosfera generale rivela senza dubbio la mano del Team Silent, ma i pregi si fermano qui. Per quanto riguarda i lati negativi sinceramente non condivido appieno le critiche che leggo riguardo al combat system (non è eccellente, non è divertente e ha poco a che fare con quanto visto negli altri capitoli, ma funziona), mentre sento di potermi unire alle critiche sul comparto tecnico, in particolare (sigh) il sound design. La firma di Akira Yamaoka è praticamente irreperibile e sembra quasi fungere da cartina al tornasole per mostrare la confusione dietro un progetto che non metteva il team nelle possibilità di dare il suo meglio, un gioco dal level design tedioso, ripetitivo (il gioco prevede di ripercorrere OGNI ambiente già visitato), poco ispirato e a tratti fastidioso. Un vero peccato perché, ad essere onesto, le idee e le qualità per dare una degna conclusione alla serie prima che venisse svenduta all'occidente c'erano tutte, ma evidentemente in casa Konami girava già la voce che, da Silent Hill, non si volesse più il meglio.

Policenauts è un capolavoro di dedizione e cura per i dettagli, un cult della fantascienza hard che non trascura di giustificare e rendere realistico ogni minimo elemento per restituire una esperienza incredibilmente immersiva e singolare. Il contesto investigativo è utilizzato quasi come una scusa per costruire una sorta di enciclopedia cyberpunk, che sfrutta ogni singolo oggetto osservabile per snocciolare nozioni di medicina, informatica, bioetica ed esplorazione spaziale. È un gioco estremamente generoso in termini di scrittura, estetica e varietà nel gameplay (si passa da fasi punta e clicca a sezioni di shooting, a puzzle per niente banali e a elementi di visual novel), e per questo non può che intrigare e appassionare chiunque abbia la pazienza di lasciarsi trasportare all'interno di una avventura inevitabilmente passiva e tendente alla verbosità, ma che sa senza dubbio come premiare la curiosità del videogiocatore. Ultima cosa da evidenziare, Policenauts è un gioco consigliatissimo ad una grande varietà di persone e sconsigliatissimo a poche, ma sicuramente è un must per chi voglia approfondire la figura di Kojima come autore; oltre a una serie di personaggi, musiche, nomi e dettagli che verranno poi ripresi nella saga di Metal Gear, in Policenauts si ritrova un po' tutto ciò che ha reso unico lo stile di Kojima, dall'approccio postmoderno che si appella continuamente al videogiocatore (talvolta anche ingannandolo e prendendolo in giro), all'ossessione per il linguaggio cinematografico che sa scoprirsi appieno nel momento in cui si immerge totalmente nelle caratteristiche del videoludico. Ottima merda.

2008

Palesemente l'anello mancante tra Earthbound e Undertale, e per questo anche qualcosa di assolutamente unico nel suo genere.
Non credo di riuscire bene a spiegare che cosa renda per me così profondamente importanti e legati questi tre giochi, e non parlo semplicemente dell'ormai quasi inflazionato atteggiamento postmoderno, le varie strizzate d'occhio al giocatore sia nel suo essere spettatore che nella sua agency, la comicità surreale, l'estetica minimale ma incredibilmente accattivante, la capacità di parodiare il jrpg ma comunque di onorarne al massimo le meccaniche di base rendendole originali. Sto facendo riferimento a qualcosa di più profondo, che mi fa pensare a quanto Earthbound sia stato fondamentale per trasmettere un'idea di creatività nel videogioco che è, sì, autoriale e rivoluzionaria, ma anche e radicalmente indipendente, personale, e profondamente umile. Per questo sono molto grato ad Earthbound per aver avuto eredità come queste, giochi fatti da un paio di persone con talento e passione sconfinati, con mezzi quasi inesistenti, con voglia di regalare esperienze che sconvolgano ogni abitudine videoludica a tutti i livelli, con il coraggio di prendersi ogni tipo di libertà creativa pur di smuovere il videogiocatore in ogni modo possibile, affascinandolo con l'atmosfera e l'estetica degli ambienti e lasciandogli il senso di colpa per le azioni omicide che si rende conto di aver commesso. OFF è la summa perfetta di tutto questo, è un giochino fatto con RPG maker che sconvolge tutti i canoni con degli enigmi originalissimi, una direzione artistica ispirata come può essere solo quando l'autore non ha nessuna intenzione di porsi dei limiti e dei combattimenti a turni divertentissimi, accompagnati da melodie swing fritte e suoni di treni che passano. Grazie Mortis Ghost, grazie per questa bella merda

Giocato dopo Policenauts, Snatcher risulta per forza di cose meno rifinito ed elegante del successore spirituale: da una parte la scrittura non è altrettanto brillante, rivela molto più esplicitamente le sue derivazioni dai classici cyberpunk sia occidentali che orientali e il feeling generale non riesce forse a realizzare perfettamente lo stile cinematografico come vorrebbe; in secondo luogo, dal punto di vista del gameplay, il titolo può risultare piuttosto artificioso e datato a causa, soprattutto, di limitazioni sul piano hardware. Per fare un confronto, Policenauts nelle sue varie versioni implementava un fondamentale supporto simil-mouse che permetteva una radicale espansione delle possibilità sia nelle fasi punta-e-clicca che di shooting, mentre Snatcher si doveva accontentare delle azioni consentite dalla croce direzionale; questi elementi rischiano di rendere l'esperienza di investigazione meno soddisfacente e più rigidamente descrittiva, limitata a una serie di opzioni a schermo che identificano preventivamente i punti di interesse. Detto questo, i pregi di Snatcher sono comunque tanti e innegabili: i puzzle sono sempre originali e interessanti, la direzione artistica sia sul piano visivo che sonoro è incredibilmente raffinata e la storia si presenta in modo molto intrigante e immersivo. Tutto ciò si troverà in Policenauts migliorato forse in modo esponenziale, ma anche per questo Snatcher ha il merito di aver posto le basi per uno stile di visual novel e di punta-e-clicca ad oggi tanto prezioso quanto poco ricordato e celebrato.

Piccola gemma gratuita realizzata da uno studio di sole due persone: consiglio di tenere d'occhio questi due perché di talento ne hanno già dimostrato in questo primo giochino.
If On A Winter's Night, Four Travelers è una avventura punta-e-clicca da concludere in tranquillità in un paio d'ore, focalizzata principalmente sul comparto narrativo e su una pixel art di grande espressività; a proposito di quest'ultimo punto, mi sento di notare l'ottimo lavoro sulla resa del colore in rapporto a diversi ambienti e luminosità, una caratteristica che in uno dei quattro capitoli viene sfruttata in modo interessante e quasi impressionistico per esaltare il tono della storia. Sul lato del gameplay non c'è molto da dire, è un gioco piuttosto lineare con qualche semplice puzzle che soddisfa quanto basta l'interattività per far immergere maggiormente nell'atmosfera, a tratti piacevolemte orrorifica. In definitiva, un buon titolo da giocare al buio in una fredda serata invernale, intrigante e leggermente lugubre.

Lucah è un gioco che mi viene da definire spigoloso sotto molti punti di vista.
Per quanto riguarda l'art direction, lo stile penso sia tra i più particolari con cui ho avuto a che fare per ora: realizzato in Unreal Engine (cosa già di per sè notevole da quello che ho letto in giro, visto che pare non sia per niente facile arrivare a risultati così estremi a partire dalle potenzialità del software), sembra in molti casi che non abbia nessuna intenzione di costruire delle figure precise, portando nel migliore dei casi di fronte ad ambienti intriganti per il loro carattere grezzo e primitivo e nel peggiore, soprattutto nelle fasi iniziali, ad un certo affaticamento dovuto al non riuscire bene a distinguere ciò che accade a schermo.
La storia è probabilmente l'aspetto che trae maggiore beneficio a livello di atmosfera da questo stile scarabocchiato, in quanto si presenta fino alla fine in modo abbozzato e allusivo: Lucah lancia addosso al giocatore una serie di personaggi, scene ed elementi, a volte addirittura di temi che vanno dalla religione alla ricerca dell'identità, ma niente si aggrappa precisamente ad una immagine definita.
Arrivando infine al gameplay, ci sono due elementi da commentare: il combat system, per contrasto con lo stile artistico, risulta piuttosto piacevole e rifinito, questo aspetto paradossale si concretizza in un ottimo feedback che riesce a minimizzare ad un giusto grado la confusione visiva dell'esperienza, dando al giocatore tutti gli strumenti per muoversi al meglio in un ambiente di gioco che al contrario fa di tutto per confondergli le idee. Il secondo elemento da notare è la meccanica della corruzione: fin dall'inizio della run si presenta in un angolo dello schermo una percentuale, che sale lentamente con il procedere del tempo di gioco, e che subisce bruschi sbalzi ogni qualvolta il personaggio venga colpito o esaurisca la barra della salute. In un primo momento posso dire di non aver apprezzato questa meccanica, in quanto non vengono forniti dettagli su cosa rappresenti la percentuale visualizzata e, soprattutto, che cosa succeda una volta raggiunto il 100%. Dopo aver terminato il gioco posso invece dire che è una meccanica sicuramente funzionale ed efficace al rendere più pesante e oppressiva, quasi ostile l'esperienza, e per questo coerente con l'idea generale del titolo.
In definitiva Lucah è un gioco non per tutti, non tanto per il livello di difficoltà in quanto ci sono diverse opzioni (e addirittura trucchi forniti direttamente dal gioco) per minimizzarlo, ma più che altro perché richiede il suo tempo per entrare nella filosofia che lo anima, che è senz'altro ostile, ma che anche per questo finisce per generare una certa curiosità. In ogni caso, l'esperienza generale, una volta superate le iniziali e inevitabili difficoltà, è sicuramente soddisfacente.

Per me una discreta delusione.
Gioco premiatissimo, di grande successo nel mondo degli indie e molto lodato per scrittura, art direction e temi trattati. Tralasciando le tragiche vicende dello sviluppo, che temo abbiano contribuito inevitabilmente ad una visibilità che esula abbastanza dalle sue qualità intrinseche, non ho riscontrato dei punti particolarmente lodevoli che mettano in risalto Night in the Woods all'interno del panorama indie: la scrittura è sicuramente curata e i personaggi con le dinamiche sociali che intrattengono risultano reali e interessanti, ma questo non basta, per quanto mi riguarda, a restituire un'esperienza che sia concretamente immersiva e trainante come dovrebbe essere per un titolo story-driven; il tema della salute mentale è timidamente abbozzato e non adeguatamente rappresentato, i timori e le insicurezze dell'adolescenza che sfocia nella vita adulta offrono degli spunti espressivi anche buoni, ma purtroppo non vengono approfonditi, la varietà del gameplay tende ad annoiare e distrarre, annacquando lo spazio dedicato allo sviluppo e all'approfondimento delle relazioni tra i personaggi, e a corollario di tutto ciò il finale totalmente anticlimatico e per nulla risolutivo contribuisce a lasciare un forte senso di incompletezza a gioco finito.
Un titolo sicuramente con delle buone idee, con un'atmosfera ricca e viva, ma che alla fine non riesce ad essere realmente incisivo, né probabilmente a portare a termine il discorso che aveva bene impostato. Peccato.

Detention riesce sicuramente bene a fotografare i temi e i sentimenti della Taiwan degli anni '60, integrando altrettanto bene una atmosfera horror che arricchisce il titolo donandogli un impatto notevole che stimola la curiosità e l'approfondimento del contesto storico-politico che fa da sfondo.
Dal punto di vista del gameplay ho altresì notato una discreta cura nella costruzione dei puzzle, nonostante questi rimangano comunque molto lineari e intuitivi.
Come punto negativo mi sento di sottolineare che nelle fasi finali il tutto si distenda forse troppo sulla storia, creando un certo scarto con il resto, ma riconosco che sia una scelta assolutamente coerente con i presupposti generali.
Detto questo, la mia impressione è che Detention sia un titolo singolare e affascinante, di una casa di sviluppo che possiede una certa dimestichezza con il medium e un evidente talento nel rendere accessibili e interessanti temi storici e culturali taiwanesi, nonostante non eccella altrettanto a livello di pura esperienza di gioco.

Dungeon crawler molto originale dai creatori di Guacamelee, Severed ha il pregio principale di integrare in modo eccellente l'utilizzo del touchscreen all'interno del combat system. Quest'ultimo risulta frenetico, ma anche sufficientemente stratificato e improntato ad un approccio metodico, pur mantenendo un livello di difficoltà molto accessibile. Mi ha stupito da diversi punti di vista, sia dal lato stile artistico già inaugurato con guacamelee, che è perfettamente leggibile, piacevole e probabilmente adatto ad una vasta gamma di generi e piattaforme, sia dal lato della profondità del gameplay, elemento che di solito in titoli così improntati su dispositivi come il touchscreen va a perdersi. La mia impressione è che purtroppo sia un gioco molto sottovalutato, probabilmente passato in sordina essendo uscito cross-gen nello stesso anno di switch, e pertanto penalizzato molto dall'essere strettamente legato ad un tipo di tecnologia che stava progressivamente perdendo di fascino e attenzione.

Tendenzialmente non ho particolare simpatia per i giochi troppo sbilanciati sul lato artistico a discapito del game design, e Blasphemous a tratti mi ha dato l'impressione di essere uno di questi: la maggior parte dei boss, superato l'impatto visivo iniziale, non sono particolarmente memorabili, e si notano qua e là delle piccole sciocchezze di design che stonano abbastanza con la maestosità dell'estetica, non facendo brillare il gioco per freschezza e originalità all'interno del panorama dei metroidvania, che è al momento quanto più vivo e vario che mai. Al netto di questo, Blasphemous riesce comunque ad essere molto divertente: l'esplorazione è appagante e adeguatamente premiante, l'atmosfera generale è efficace e il combat system è sufficientemente stratificato, punitivo e versatile. Un titolo insomma non eccellente, ma notevole, quanto basta per lasciare delle aspettative alte per il seguito.

Super MERIO RPG si è trovato al centro di una fortunatissima combinazione di attori e influenze che sono riusciti a bilanciarsi perfettamente: Nintendo, e Miyamoto in prima persona, sono riusciti a portare avanti una filosofia di sviluppo improntata alla creazione di veri e propri giocattoli digitali, mettendo al primo posto la freschezza e la semplicità del gameplay ed inserendo elementi ritmici ispirati ad un giocattolo dell'epoca; Square è riuscita a sua volta a restituire il feeling vero e proprio di una classica avventura RPG, per quanto ridotta all'essenziale, senza allo stesso tempo snaturare gli elementi imprescindibili, la leggerezza e la comicità dell'universo di MERIO; infine, seppur indirettamente, l'esperienza di Rare con i Donkey Kong Country ha aperto un mondo su ciò che poteva essere realizzato a livello grafico utilizzando la grafica 3d prerenderizzata, portando quindi alla scelta di una prospettiva isometrica e alla creazione di uno dei giochi visivamente più appaganti per SNES.
La successiva rottura dei rapporti tra Square e Nintendo con la diatriba sul lancio di Final Fantasy VII ha reso questo gioco privo di un seguito ufficiale, ma anche unico nel suo genere, un caso estremamente singolare, e forse va bene così.
MERIO è magico, una gioia per tutti i sensi, ho riso come un cretino più volte e mi sono divertito un casino, grazie Merio

Ci sono alcuni aspetti che non ho apprezzato del tutto, ma nel complesso penso che Parasite Eve meriti di essere giocato e apprezzato per la sua originalità.
Dopo il cambio di paradigma che aveva rappresentato FInal Fantasy VII, il progetto di Sakaguchi e Square è piuttosto evidente che consistesse nel proseguire nella direzione degli rpg in stile cinematografico, dove alla storia e alla spettacolarità delle fasi action veniva dato molto spazio tramite scene in cgi estremamente curate dal punto di vista espressivo e registico; questo aspetto è stato declinato guardando al successo di Capcom e dei primi due Resident Evil, da cui Parasite Eve la contestualizzazione in tematiche da B-movie horror e sci-fi, oltre che alcuni vaghi elementi di gameplay survival horror.
L'esperimento, piuttosto azzardato, secondo me è riuscito, per quanto la commistione tra i generi poteva forse essere trattata in maniera più interessante: fattori come la gestione delle risorse e dell'inventario e l'esplorazione degli ambienti non hanno ricevuto la stessa attenzione degli elementi rpg, rendendo la progressione nel gioco forse eccessivamente lineare e priva della classica tensione integrata nel gameplay che per me sta alla radice del fascino dei classici survival horror; in nessuna occasione ci si ritrova in dubbio rispetto alla corretta quantità di risorse necessarie per superare una determinata area e molto poco spazio viene lasciato a strategie di ottimizzazione della run (vista anche l'assenza totale di una mappa, oltre al fatto che gran parte delle risorse vengono droppate in continuazione dai nemici), elementi che più che altro vengono demandati al potenziamento delle statistiche del personaggio giocante e dell'equipaggiamento.
Penso che Parasite Eve potesse essere molto di più in termini di profondità di gameplay, nonostante il combat system alla fine risulti piuttosto divertente e non banale e il design dei nemici sia discretamente vario; detto questo, l'ottimo stile sci-fi nella scrittura e il livello altissimo delle scene body horror animate in 3d, per me, compensano gran parte delle mancanze, facendolo diventare un gioco da recuperare, almeno per gli appassionati del genere.