"The job..."

Folle, violento, esilarante, ma anche profondo, introspettivo, ammaliante. Killer is Dead è uno dei classici ricettacoli dei pensieri assurdi partoriti dall'eccentrico Suda51, passando talvolta di colpo da elementi infantili, tra erotismo e non-sense, a mature riflessioni sulla perdita di valori e su velati temi ambientalistici.
Una storia seria si dipana attraverso una struttura episodica che contribuisce a sacrificare la linearità della narrazione in funzione di un incremento del mistero e di un'incentivazione al giocatore a riflettere egli stesso sul significato degli eventi, talvolta volutamente allegorici, vissuti dal buon Mondo Zappa. Sì, è il nome originale del protagonista. Già questo vale l'acquisto.

Essendo di base uno Stylish-Action, Killer is Dead si ispira fortemente alle due stilose creature del buon Kamiya, ovvero Devil May Cry e, soprattutto, Bayonetta, pur semplificandone sensibilmente l'aspetto tecnico.
Non avremo molte combo da imparare, nè tantomeno dovremmo specializzarci nei combattimenti in salto, essendo quest'ultimo assente. L'unica cosa che possiamo fare è sfoderare la nostra fidata katana e, alla Kill Bill maniera, fendere tutto ciò che si muove. La semplicità del combat system, che comprende, oltre alle spadate, pugni per superare le parate nemiche e alcune armi da fuoco, viaggia di pari passo con l'esaltazione del divertimento; non dovendo memorizzare e pensare a combinazioni complicate di tasti, il giocatore può scatenare la sua furia omicida ad un ritmo elevatissimo, parando e schivando a tempo per ottenere un ulteriore incremento della violenza e una modifica sostanziale alle animazioni del protagonista, che si esibirà ora in eleganti danze da spadaccino, fatali per chi oserà frapporsi tra noi e il nostro obiettivo. Oltre al piacere per gli occhi dinanzi alla vista di tali coreografie, degna di nota è la responsività dei comandi, sempre perfetta e malleabile, tale da farci amare ogni sezione di combattimento, anche quelle più lunghe e ripetitive. Un plauso va fatto alle parate che, a seconda della situazione in cui si trova il personaggio e a seconda del nemico che si sta affrontando, avranno un'animazione sempre differente, la cui fluidità non interrompe minimamente il ritmo dello scontro. Unico grande, vero, difetto, è la mancanza di un qualsivoglia sistema di lock, creando talvolta difficoltà artificiose nell'indirizzare i nostri colpi verso un nemico specifico.
La semplicità, per l'appunto, è una lama a doppio taglio e ferisce proprio laddove dovremmo ferire noi: nei nemici. Le categorie di mob si possono contare sulla punta delle dita e, salvo qualche variazione legata all'ambientazione dell'episodio, non brillano in alcun modo per design.
Discorso opposto per i boss, i cavalli di battaglia delle produzioni targate Suda51. Pur non possedendo il carisma sconfinato di quelli di No More Heroes, ogni singolo boss di Killer is Dead non mancherà di sfoderare il proprio charm, pure mentre tenterà di farci la pelle nei modi più disparati.
Generalmente, anche a difficoltà elevate, il gioco presenta uno scarso livello di sfida, dovuto specialmente ad alcune meccaniche un po' rotte; d'altro canto, il gioco diviene così accessibile a chiunque, non solo ai puristi del genere.
Oltre alle missioni principali, saranno disponibili alcune quest secondarie, delle semplici riproposizioni di alcuni livelli, reinterpretati con obiettivi e meccaniche diverse. Nulla di rivoluzionario, ma perfetto per incrementare la rigiocabilità e la longevità del titolo.
E poi... ci sono loro. Le "missioni gigolò". Anche qui, un nome un programma. In questi minigiochi, che avranno come premio un potenziamento per il nostro arsenale (...), l'obiettivo sarà quello di far colpo su una "bella" durante un appuntamento, ma solo dopo averle osservato di nascosto le zone erogene, ancor meglio se usando occhiali a raggi x, per incrementarci il coraggio. Idea carina, volutamente satirica, realizzazione claudicante, lineare e ripetitiva.

Tolte queste ultime sezioni "giapponesi", Killer is Dead riesce con successo a mostrare il suo lato più oscuro, pieno di dubbi e incubi ricorrenti, capace di avvolgere il giocatore con il suo fascino malvagio.
Ogni personaggio che entra a far parte della storia di Mondo Zappa possiede un carisma memorabile, da cui raramente traspare allegria e leggerezza (con una fastidiosa eccezione), quanto più rassegnazione e apatia verso un'esistenza degradata e degradante. Ben lungi dunque dalle ingenue spensieratezze di Lollipop chainsaw o No more heroes.
La colonna sonora, che si dipana tra vari generi, dal jazz al classico all'elettrico, punk, rock etc, aiuta parecchio nel dare una credibilità ad un'atmosfera e a dei personaggi che, in altri casi, parrebbero soltanto strani e stranianti. Akira Yamaoka non sbaglia un colpo, dopotutto.

Il fiore all'occhiello di Killer is Dead si presenta sottoforma di "High Contrast Shading", tecnica artistica voluta applicata fortemente da Suda nella sua opera. In questo caso, per realizzarla, viene modificato pesantemente l'Unreal Engine al fine di dare ai modelli e alle ambientazioni, tutto in cell shading, una connotazione anime dai fortissimi contrasti, in cui il chiaro-scuro viene sbilanciato verso quest'ultimo, coerentemente con la misteriosa narrazione del titolo che orbita attorno al "lato oscuro della luna". Di conseguenza, tutti i personaggi sono costantemente coperti per metà del loro corpo da ombre, che si modificano in tempo reale sia assecondando la posizione delle luci che il sesso del personaggio in questione. Nonostante ciò, al contrario di come alcuni sostengono, i modelli sono ben delineati e non è presente alcuna scena o sezione ludica in cui sia presente qualche elemento non distinguibile ad occhio nudo.
Gli scenari che si vengono a creare sono mozzafiato e lo stile artistico a distanza di anni non ha subito un solo anno di invecchiamento, al di là di qualche texture di sfondo ridotta all'osso.

K.I.D. è una gemma preziosa, pure sottovalutata, che meriterebbe piedistalli più dignitosi rispetto al trattamento riservatogli da porting di dubbia qualità.
La trama saprà coinvolgervi, ma richiederà anche uno sforzo da parte vostra per completarne i misteri volutamente lasciati irrisolti.
Lo stile artistico e il gameplay magnetico vi terranno incollati al gioco fino alla fine dei titoli di coda.
Un must play purtroppo dimenticato, invero totalmente valido.

"... killer is dead."

La "Nightmare edition", ossia il porting di "Killer is dead" (nella sua versione deluxe) per pc, è pura spazzatura sui sistemi moderni. Per qualche assurdo motivo, il software in questione può crashare da un momento all'altro, facendoti perdere tutti i progressi compiuti sino a quel momento, poco importa che il bug avvenga all'inizio della partita o dopo il superamento di una bossfight lunga ed estenuante...

In questo caso non valuto il gioco in sè, invero di grande valore, ma solamente dell'involucro marcio in cui è relegato e pensato per gli utenti PC.

No More Heroes III è il frutto degli sfoghi artistici di un autore anticonvenzionale visibilmente stanco di dover metter mano ad un brand che, da tanti anni, non ha più nulla da dire.
Combattimenti fuori dall'ordinario, anarchia visiva e assurdità narrative non mancheranno di certo, essendo essi i tratti distintivi dei lavori di Suda51, ma nulla sarà realmente memorabile, non essendo supportarti da una struttura ludica e tecnica all'altezza del compito.

Ben lungi dai fasti indimenticabili del primo No More Heroes, la terza iterazione della saga principale con protagonista l'otaku assassino Travis propone la classica struttura a classifica, in cui il nostro obiettivo sarà quello di uccidere 10 individui (questa volta alieni) per salire le gerarchie e arrivare al capo supremo, il Principe FU, unico vero personaggio secondario carismatico in un mare di banalità egocentriche.
La trama non è mai stato il punto forte di questa saga e NMH3 non fa eccezione, sebbene le premesse suggerissero il contrario.
Ciò che più di tutto inficia sulla qualità della narrazione è proprio il protagonista; intendiamoci, Travis è come sempre interpretato magistralmente dal buon Atkin Downes, ma il suo tipo di personaggio è stato concepito per essere usato "una tantum", nel senso che la sua potenza narrativa svanisce inevitabilmente dopo il primo utilizzo. Travis Touchdown è la figura parodistica dell'otaku/nerd esaltato occidentale, spavaldo e ingenuo, che non esiterà a buttarsi dentro un pericoloso gioco mortale per i più superficiali motivi senza mai prendere sul serio le sue missioni omicide... proprio come se fosse tutto un gioco. Inevitabilmente, alla fine dell'avventura, tale personaggio maturerà e comprenderà meglio le sue priorità. Consapevoli di ciò, rivederlo diversi anni dopo, nello stesso ruolo, con lo stesso carattere e per gli stessi motivi, non può che dare al giocatore una sensazione di forzatura e stanchezza di idee. Sarebbe stato più apprezzabile dargli una caratterizzazione differente, oppure utilizzare un altro/un'altra protagonista (Shinobu sarebbe stata perfetta).

Cose di questo genere riguardano pure il gameplay, che ripropone la stessa formula del primo capitolo: uccidi una serie di nemici, guadagna denaro per la bossfight, uccidi il boss. Sebbene le parti action siano effettivamente divertenti, grazie all'aggiunta di nuove combo, potenziamenti e build diverse che possono essere modificate tramite l'utilizzo di tante abilità passive craftabili alla propria "base operativa", i momenti esplorativi e di "raccolta fondi", esattamente come negli altri giochi del brand, risultano ripetitivi, noiosi e, stavolta, pure privi di originalità, talmente anonimi da chiedersi il perché non siano stati rimossi in funzione di una struttura più lineare.
Le cinque "open maps" da esplorare sono quasi totalmente vuote, senza veri punti di interesse al di fuori di qualche dimenticabile quest secondaria; l'esplorazione di tali ambienti risulta totalmente tremenda, sia per i movimenti del protagonista lenti e macchinosi, sia per gli eccessivi muri invisibili che non ci permetteranno a volte di saltare dei piccolissimi ostacoli, obbligandoci di fatto a prendere strade più lunghe senza motivo. Stesso discorso va fatto per la moto che, in spazi più aperti, ci aiuterà a muoverci con più rapidità (sempre che non decida di schiantarsi contro il più piccolo sassolino).
Finita la parte peggiore di questa esperienza, saranno finalmente approcciabili le bossfight, che, come da tradizione, proporranno momenti assurdi e fuori dalle righe, divertenti, sì, ma mai memorabili come nei primi due capitoli; ogni tanto qualcuno ci prova a creare situazioni interessanti, poi purtroppo banalizzate qualche istante successivo.
La difficoltà di NMH3 è accettabile... a meno che non si affrontino nemici comuni. Non i boss di fine livello, ma i normali mob e mid boss, LORO costituiranno la vera grande difficoltà del gioco. Inspiegabilmente rocciosi e forti, talvolta andranno sfidati contemporaneamente ad altri loro colleghi in piccole arene dalla difficile navigabilità, incrementando verticalmente la complessità di battaglie che non avrebbero motivo di risultare così ardue. Il bilanciamento è dunque molto peculiare... ma anche perfettamente inquadrato in un contesto pazzo di suo.

Non sprecherò molte parole per descrivere il livello tecnico di questo gioco (da intendersi separato al comparto artistico!), totalmente insufficiente, arretrato e vecchio persino per la sua console di origine (lo Switch), con pop up continui, giochi di luce buggati, texture che non si caricano, e, anche in caso lo facessero, un piattume generale.
Peccato, perché come sempre la mano dell'autore, a livello artistico, si nota eccome, nonostante ci sia l'ennesima sensazione di stanchezza di idee.

No More Heroes III non è un cattivo gioco in sè, riesce ad intrattenere il giocatore adeguatamente e lo spinge ad andare avanti grazie alla curiosità verso gli elementi unici che caratterizzeranno le nuove bossfight. D'altro canto, la sua arretratezza visiva e un certo livello di stanchezza mentale strozzano il valore complessivo dell'esperienza, che probabilmente verrà apprezzata solamente dagli indomiti fan della saga.
Il finale lascia intendere che verrà prodotto un seguito, ma a questo punto ne vale davvero la pena?

"Damon, I love you!"

Accettare ciò che non vogliamo accettare.
Ammettere ciò che non vogliamo ammettere.
Il termine del nostro percorso di vita.
La piccolezza della nostra esistenza.
Questo è ciò che Hauntii prova a trasmetterci con le sue cupe immagini e la sua originale arte.

Come si può intuire da un primo sguardo all'opera di Moonloop, questo gioco esplorerà varie tematiche inerenti a quel reame ancora oggi celato, ovvero la morte.
Noi giocatori vestiremo i panni, o i lenzuoli, di Hauntii, un fantasmino nero da poco deceduto; per adempire al suo scopo e quindi ascendere ad un piano esistenziale di pace eterna, dovrà farsi aiutare da un "Eternian", uno spiritello bianco simile ad un angelo custode, insieme al quale dovrà liberarsi da quattro catene che lo tengono ancorato ad una sorta di purgatorio.
Poco dopo, si scoprirà che per assolvere a tale compito sarà necessario privarsi di una parte importantissima del proprio essere, cosa che genererà dubbi e incertezze nei confronti della nostra guida angelica.
L'incipit della trama di Hauntii è intrigante e lascia spazio a numerose considerazioni di natura filosofica o introspettiva, nonché [la trama] fautrice di alte aspettative per lo sviluppo della stessa... sviluppo che non viene mai esplicitato.
Sebbene ciò non costituisca un vero e proprio errore, poiché rendere sezioni narrative libere di essere interpretate in vari modi è una licenza poetica da parte dell'autore del tutto legittima, dà al giocatore una sgradevole sensazione di spaesamento, in quanto, di punto in bianco, certi argomenti, fino a quel momento didascalici, verranno apparentemente dimenticati fino alla fine del gioco.

Stilisticamente Hauntii è una vera delizia, un'avventura soprannaturale bicromatica in cui, al bianco, verrà alternato un colore freddo, diverso a seconda del livello, sia esso nero, verde scuro, blu e così via. Tale scelta di colori risulta vincente per dare l'idea di un luogo privo di vita e, al tempo stesso, vario e vibrante.
Il nostro piccolo Hauntii e gli altri personaggi che incontreremo durante il viaggio sono caratterizzati da un semplice, ma gradevole, sprite in due dimensioni disegnato a mano, e si muoveranno in un ambiente che, sebbene appaia anch'esso bidimensionale, presenta una sua profondità, arrivando così la concetto di "2,5D".
Mentre a livello artistico tutto ciò regala scorci indimenticabili e certi frame che sembrano dipinti a inchiostro, sul lato ludico ciò presenta alcune criticità.

Come spesso accade nei giochi in 2,5D, calcolare la distanza tra due punti posti uno dietro l'altro potrà essere fonte di problemi di orientamento, aggravati nel caso in cui sarà necessario muoversi con una certa rapidità. Oltretutto, certi elementi di sfondo, che per motivi di prospettiva sono passati in primo piano, si sovrappongono esageratamente all'azione principale di gioco, fornendo una sensazione di confusione generale. Nulla di troppo grave, dato che ci si abituerà dopo poco tempo a questi inconvenienti, ma non vanno sottovalutati.
La feature regina di Hauntii, come suggerisce il nome, è quella di "infestare" oggetti e personaggi, grazie ai quali risolvere enigmi e ottenere stelle, elementi chiave per il completamento del gioco e il potenziamento del personaggio. Certo, il gameplay non spicca di originalità, dato che ricorda da vicino titoli come Super Mario Odyssey e Jak & Daxter, ma non per questo risulterà noioso. Questa reinterpretazione dei classici saprà regalare una decina di ore di divertimento, sia nell'esplorare i tanti livelli di ampio respiro, sia nel risolvere i tanti piccoli enigmi, mai troppo complessi, che il mondo di gioco ha da offrire. Inoltre, sarà presente un sistema shooting alla "Isaac", che ci metterà alla prova durante alcune sezioni bullet-hell o in piccole ordalie di spettri corrotti. Ancora una volta si tratta di parti semplici, forse un poco ripetitive per via di una limitata diversificazione di nemici, ma mai ridondanti o noiose.
Collezionare tutte le stelle non sarà obbligatorio e non ci sarà un reale premio per esortare il giocatore a farlo, ma nonostante ciò verrà naturale darsi da fare per completare il più possibile tutte le quest, per il semplice fatto che è divertente e rilassante.
Purtroppo, a rovinare l'entusiasmo di un grazioso comparto ludico, ci si mettono alcuni bug che minano il corretto avanzamento del gioco; un esempio è lo spawnare già morti tra una fase e l'altra di una bossfight, perdendo così ingiustamente vita, laddove sarà molto difficile riguadagnarla; un altro è veder scomparire lo sprite del nostro o di altri personaggi, salvo poi riapparire a intermittenza per qualche minuto, prima che si risolva tutto (ok che sono fantasmi, ma questo non dovrebbe comunque succedere).
Inoltre, il framerate non è solidissimo e, diciamocelo, talvolta cala senza grande motivo.
Specialmente per una produzione indipendente non si tratta di problemi gravi, tanto che potrebbero persino venir sistemati con una futura patch, però dispiace perché non permetterà all'opera di raggiungere il cuore di più persone, specialmente su PC.

Ciò che il cuore raggiunge, eccome, con forza e decisione, è la colonna sonora, triste e malinconica, ma anche risoluta e carica di speranza. Ogni traccia musicale, del tutto orchestrata, sprigionerà nel cuore di chi ascolta un'emozione sempre diversa, permettendo così agli sviluppatori di comunicare anche laddove vi è una mancanza di dialoghi. Anche la musica è parte integrante di Hauntii, e Hauntii non sarebbe lo stesso senza la sua musica.

Cos'è che ci rende quel che siamo? E ancora, quanto conta realmente la nostra esistenza in relazione ad un'esistenza vasta e umanamente inconcepibile?
Se volete saperne di più, Hauntii darà alcune risposte, a patto che le si desideri realmente cercare.

La run dipende troppo dall'RNG di alcuni NPC che, a seconda del party scelto, potranno mettere più (troppo) o meno in difficoltà l'ingenuo avventuriero.
Il finale è approssimato, ma l'evoluzione caratteriale del nostro rivale (unico NPC fisso che ci accompagnerà durante tutto il viaggio) è degna di nota, soprattutto per i toni creepy e maturi che tanto ci piacerebbero vedere in un ufficiale gioco Pokemon.

Mancano alcune feature che sarebbero state ideali per il gioco, come le battaglie fisse in doppio e le sfide online, ma per un fangame gratuito sul browser quel che c'è basta e avanza.

Quando le droghe non sono soltanto polveri bianche.
Questo è Slay the Spire.

Per chi fosse un giocatore del celebre Heartstone, o comunque ne conoscesse le meccaniche, troverà un'esperienza familiare nel giocare a questo peculiare indie, che debuttò in early access su Steam nel 2017.
Slay the Spire è un deckbuilder single player con combattimenti a turni, il tutto immerso in un contesto rougelike; ad ogni partita, a seconda della "classe" scelta, il giocatore inizierà con lo stesso mazzo di 10 carte, che andranno via via ad aumentare, potenziarsi o distruggersi, combattimento dopo combattimento, salvo poi perdere tutti i progressi in seguito ad una sconfitta.
Per vincere una partita bisognerà farsi strada attraverso quattro livelli di crescente difficoltà, il cui tragitto, però, saremo noi a sceglierlo a seconda delle nostre strategie, siano esse più conservative o più pericolose; chiaramente è tutta una questione di "rischio e ricompensa", nel senso che scegliere di combattere piuttosto che riposarsi a recuperare energie potrebbe, in caso di vittoria, consegnarci una reliquia (un power up passivo), rendendoci, però, al tempo stesso, più deboli e con meno hp per le sfide successive.
Ciò che rende questo sistema di progressione una vera e propria droga è la sorprendente varietà che intercorre tra una run e l'altra, dato che saranno innumerevoli le tipologie diverse di carte e reliquie che potremmo ottenere e, di conseguenza, innumerevoli saranno le tattiche con cui affronteremo una partita, la quale non sarà mai identica a quella precedente.
Da apprezzare, inoltre, sono gli eventi casuali, contrassegnati in mappa da un punto interrogativo, in cui, in pieno stile di avventura testuale anni 80, potrà capitarci la qualunque, dall'incontro con spiritelli amichevoli che ci cureranno in cambio di carte da bruciare fino a duelli tra cavalieri su cui dovremo scommettere denaro. Inutile dire come questo aumenti ancor di più la rigiocabilità del titolo.
Gli scontri contro i nemici base sono generalmente bilanciati, tranne qualche eccezione mal calibrata che richiede l'utilizzo forzato di consumabili; lo stesso discorso va fatto per i boss e i nemici elite, ad eccezione del "mostro finale", che è un po' "too much". Se non si è svolto un percorso perfetto fino a quel punto, sarà matematicamente impossibile sconfiggerlo, con la dura conseguenza di dover ripetere quelle 2/3 ore di gioco per arrivare sin lì.

Il gameplay è il fulcro trainante di Slay the Spire e probabilmente l'unico elemento su cui gli sviluppatori, alla loro prima esperienza produttiva, si sono concentrati.
Tutto il resto è presente, talvolta con qualche guizzo di inventiva, ma estremamente secondario e abbozzato.
Abbiamo una storia non pervenuta, a malapena accennata nella descrizione delle varie classi, quasi nessuna lore e nessun personaggio degno di attenzione.
Abbiamo un comparto sonoro composto da due o tre musiche in croce, riprodotte in loop di continuo per tutto il tempo, piuttosto fastidiose, tanto che il modo corretto per godere appieno del titolo è quello di azzerare l'impostazione della musica. E questo la dice lunga.
Abbiamo un art design apprezzabile in un primo momento, ma che arriva a stancare e deludere dopo poco per la sua anonimità. Le animazioni di battaglia sono trascurabili, laddove siano effettivamente presenti. Invero il design dei boss è piacevole, ma piuttosto anticlimatico, dato che gli ultimi due saranno estremamente scialbi e privi di importanza.

Sono consapevole del fatto che tutto ciò non è mai stato declarato essere il punto forte dell'opera, ma non per questo bisogna sottovalutarlo, dato che un videogioco è un sistema ben più complesso di un gioco di carte in sè.
"Inscryption", gioco simile uscito nel 2021, ha dimostrato che invece è possibile conciliare narrazione, estetica e quel tipo di gameplay.

Per il grande supporto alle mod e per l'estrema rigiocabilità del gioco base, consiglio caldamente l'acquisto di Slay the spire a chiunque fosse appassionato del genere.
Ma occhio a non abusarne, ne va della vostra salute.

"Coccoooooooooò!"

Breve ma intensa l'ultima epopea di Senua, una nuova discesa nella complessa e tortuosa psiche della guerriera del nord, tra dubbi, violenza e compassione.

Senza dubbio, la seconda iterazione di Hellblade, ad opera sempre di Ninja Theory, rappresenta la punta di diamante dell'avanzamento tecnologico dell'industria videoludica.
Ogni singolo elemento "scenografico" possiede un elevatissima conta poligonale e viene reso sempre alla massima definizione, grazie ad un lavoro di mappatura degli ambienti reali a cui il gioco si ispira (perlopiù islandesi), senza precedenti; a rendere ogni inquadratura maestosa contribuisce la tecnologia "Lumen", che pone l'illuminazione generale e la qualità dei riflessi ad un livello raramente eguagliato nel panorama videoludico attuale.
Grandissima cura poi è stata posta nella creazione delle animazioni, praticamente indistinguibili dalla realtà, specialmente quelle dei combattimenti, la cui fluidità e pesantezza ci farà dimenticare per un istante di star giocando ad un videogioco, proiettandoci direttamente sul campo di battaglia, percependo ogni ferita sulla propria pelle.
Indubbiamente il fiore all'occhiello di questa produzione è l'aspetto tecnico, su cui Microsoft ha negli anni puntato molto dopo aver acquisito il team e l'IP, ma vorrei soffermarmi su un altro punto che non viene mai adeguatamente affrontato quando si parla di Hellblade II: la recitazione. Tutto ciò che di bello questo gioco può offrire a livello estetico o narrativo viene esaltato da quella che, probabilmente, sarà la migliore interpretazione attoriale dell'anno, sia per quanto riguarda i comprimari che, soprattutto, per Melina Juergens, l'attrice di Senua, impeccabile dal primo minuto, intensa, credibilissima e molto plastica nelle cangianti espressioni facciali della nostra eroina, messa a dura prova dalla propria psiche durante questo estenuante viaggio.
L'unico difetto che posso trovare alla grafica di questo gioco riguarda la realizzazione dell'acqua, da sempre croce e delizia (più croce) dei developer, che risulta nelle increspature e nelle onde piuttosto approssimata e statica, il che soprende molto visto tutto il resto.

Uno degli aspetti che ha fatto molto discutere riguarda il framerate: al fine di migliorare l'immersività e permettere una così alta risoluzione degli ambienti di gioco, Hellblade II è lockato a 30fps e presenta due bande nere cinematografiche.
Per quanto io sia dell'idea che al videogiocatore bisognerebbe SEMPRE dare la possibilità di scelta, bisogna ammettere che questi 30fps quasi non si notano e basteranno pochi minuti di gioco per abituarsi alle bande nere, perciò il problema della mancata scelta è davvero marginale.

Ciò che invece marginale non risulta è la parte ludica. Intendiamoci, non era un segreto che il focus di Senua's Saga sarebbe stato tecnico e narrativo, però dopo un'attesa durata 7 anni dal primo capitolo, che invece si difendeva bene a livello di gameplay, ci si aspettava un qualcosa di più elaborato... o quantomeno di diverso!
E invece abbiamo ottenuto una prolungazione dello stesso "modus giocandi", con solo qualche piccola variazione degli enigmi, ben poca roba per le potenzialità che poteva esprimere.
Le lunghe camminate introspettive (e di autocompiacimento della realizzazione artistica) verranno sporadicamente interrotte da due situazioni: la risoluzione di apprezzabili, ma banali, enigmi ambientali e da combattimenti.
I primi consistono nel trovare la giusta prospettiva per visualizzare una runa, oppure accendere e spegnere delle braci per rivelare o celare nuovi percorsi. Un po' ridondanti, ma sparuti. I secondi, più divertenti, saranno scontri all'arma bianca in cui bisognerà destreggiarsi tra schivate a tempo, parate perfette e colpi leggeri o pesanti; sebbene sia più semplificato e meno divertente rispetto alle analoghe sezioni del prequel, lo swordfighting di Hellblade continua a dimostrarsi soddisfacente e, grazie alle maniacali animazioni di lotta di questo titolo, totalmente immersivo. Di contro, però, troviamo una "difficoltà", se così si può chiamare, inesistente, in quanto morire sarà veramente difficile e, in alcuni casi, pure impossibile; tutto ciò svilisce queste parti interattive, rendendole di fatto una formalità superficiale e sbrigativa.

La trama è uno dei punti cardini di questo tipo di esperienze. Interessante ed evocativa, parla di un nuovo viaggio all'inferno, stavolta umano, visto dal punto di vista della sfortunata Senua, tra giganti e tiranni, in cui più volte non sarà chiaro dove inizia la fantasia e termina la realtà.
Seppur priva di colpi di scena, l'epopea islandese trova il suo fascino nella lotta interiore di una persona fragile che, in un mondo spietato e violento, vede costretta ad imporsi come persona grintosa e sicura di sè, quando in realtà desidererebbe soltanto trovare pace e qualcuno con cui condividere i propri tormenti, che potesse capirla, anche fosse un mostro, poiché "tutti i mostri un tempo erano umani".
Detto ciò, nonostante abbia apprezzato il lavoro artistico dietro una storia tanto intimistica e psicologica, che a suo modo sensibilizza su un argomento delicato del genere, devo dire che il personaggio di Senua perde molto del suo fascino rispetto a "Senua's Sacrifice", titolo che non necessitava affatto di un seguito; per certi versi perderebbe pure credibilità se non fosse per la recitazione eccelsa di Melina.
I personaggi secondari, fedeli compagni di viaggio, rappresentano una piacevole novità dal punto di vista narrativo, grazie anche a dei dialoghi sbloccabili in NG+, ma risultano, a conti fatti, tranne un caso, poco impattanti a livello di trama.

Ci sono, tuttavia, due piccoli personaggi, a noi già noti, che valorizzeranno un altro picco qualitativo di questo gioco: le voci interne.
Come nel prequel, noi giocatori, così come la protagonista, percepiremo costantemente delle piccole vocine nelle testa, ognuna rappresentante uno stato d'animo di Senua: paura, rabbia, sensi di colpa, orgoglio, rimorso etc, e il tutto sarà amplificato dal sistema dei suoni binaurali tridimensionali, una sorta di 8D, rendendo così molto realistica la sensazione di "psicosi". Ma non solo le voci, tutti i suoni del mondo di gioco saranno di altissima qualità e li percepiremo come se fossimo noi stessi in quel mondo.

Senua's Saga: Hellblade II è una perla audiovisiva di prim'ordine, un vero e proprio film interattivo, in cui la differenza tra interazione e filmati è inesistente, anche grazie ad un'ottima regia e ad un piano sequenza unico di estrema qualità.
Di contro, si parla anche di un gioco molto breve (sulle 5/8 ore), molto lineare (ad eccezione di qualche deviazione per ottenere "collezionabili" facoltativi) e poco interattivo.
Nel bene o nel male, nell'elogio o nella discussione, questo gioco sarà un punto importante nella storia videoludica e farà parlare molto di sè nel corso degli anni.
Il prezzo di 50 euro forse può essere proibitivo per molti in relazione alle ore di gioco, ma grazie al game pass sarà possibile recuperarlo con poco. Consigliato assolutamente a chiunque.

L'unico gatto al mondo agile come un elefante. Comandi rozzi e poco pratici.
Giochino antistress che non possiede lo stesso charm di "A short hike", pur condividendone molti aspetti.

Harold Halibut è un gioco iconico, unico nel suo genere. Uscito dopo quasi un decennio di lavorazione presso un piccolo team indipendente (anche se non si direbbe), questa bizzarra avventura sci-fi, realizzata in uno stile che ricorda la tecnica della stop-motion, vola talmente in alto da sfiorare l'appellativo di "Capolavoro".
Capolavoro, però, non è, poiché Harold Halibut tradisce proprio laddove il videogiocatore ripone maggior fiducia: l'esperienza interattiva.

Se questa fosse una recensione professionale spenderei paragrafi interi di elogi verso quasi ogni aspetto del gioco, ma in questa sede meglio sintetizzare; la storia è appassionante, i personaggi sono delineati con una cura ed un amore immensi, il doppiaggio è sbalorditivo, il reparto artistico è unico e curato nei minimi dettagli, la colonna sonora è evocativa e i dialoghi sono brillanti.
Se fosse un film, potrebbe anche superare i lavori di Wes Anderson, grande ispirazione per il gioco.

Probabilmente chi non ha mai giocato Harold Halibut ora si chiederà: di che genere videoludico fa parte? Platform, Puzzle game, Horror, Avventura Grafica...
Nessuno di questi. O meglio, nessuno in generale. In senso negativo.
Harold Halibut non crea un nuovo genere, ma li distrugge tutti quanti. Non è un avventura grafica perché non ci sono enigmi, non è un walking simulator perché c'è ben poco da camminare, non è una visual novel perché è pieno di cutscene. Non è niente, gli unici momenti interattivi prevedono di spostare (pure lentamente e con diversi caricamenti) il protagonista da una parte all'altra della mappa di gioco. That's it.
Ci sono piccole variabili sporadiche, ma sono estremamente guidate e lineari. Ogni tanto si ha l'impressione che se abbandonassimo il controller o la tastiera sul tavolo il gioco si finirebbe da solo.
L'unica vera libertà che ci viene concessa è l'esplorazione delle location "Raptureiane", in cui sarà possibile scambiare qualche nuovo dialogo con gli npc per conoscerli meglio (senza però che ci sia alcuna influenza sulla trama) e sbloccare delle immagini disegnate dal nostro Harold in persona. Sebbene questa parte sia carina e rilassante, è troppo poco per un gioco che dura sulle 15 ore, in cui più della metà sono dedicate a filmati o conversazioni.
Questa penuria di interazione lo rende più un film interattivo che un videogioco vero e proprio, con la conseguenza di un sensibile abbassamento della valutazione.

Detto questo, Harold Halibut rimane un gran bel gioco, un'esperienza unica, profonda ed emozionante. E' la storia di chi vaga sconsolato alla ricerca di un ambiente che rispecchi la propria essenza, una casa per la propria anima, rifiutando così le classiche convenzioni a cui l'uomo sembra destinato a prendere parte dalla nascita, oltretutto non per una propria decisione, che invece altri, sconosciuti e defunti, prima di lui si sono permessi di compiere.
Molte testate giornalistiche hanno affossato questo indie con voti oltremodo bassi. Diversi giocatori hanno criticato questo indie per la sua prolissità, noiosità e insensatezza. In questo caso voglio prendermi una grossa libertà... la libertà di dire che non hanno capito proprio niente. Comprendo le critiche, HH non è esente da difetti, ma dare un voto appena sufficiente o addirittura insufficiente ad un gioiello del genere significa non comprendere il medium videoludico nella sua interezza e/o non amarlo seriamente. Non esistono solo i giochi competitivi, non esistono solo Spiderman, God of War, The last of Us, Horizon, ci sono tante piccole produzioni che vanno salvaguardate e apprezzate per il loro coraggio nel proporre qualcosa di nuovo e rischioso in un mercato che sta iniziando a stagnarsi dietro alle solite produzioni AAA, ormai tutte simili tra loro.

Perciò fatevi un favore e giocate ad Harold Halibut, fino alla fine.

So... true bluglglgl is being happy within uncertainty!


Il DLC/Sequel standalone di "Lisa: The Painful", rispetto al predecessore, non innova granché dal lato ludico, benché indirizzi il giocatore ad adottare un approccio più calcolato in battaglia e strategico nella gestione di risorse; tuttavia, come era prevedibile, si concentra maggiormente sulla narrazione, ampliando e concludendo i terribili eventi iniziati con il viaggio di Brad alla ricerca della sua "Ometta" nella Olathe devastata dal "Flash".

La gestione della difficoltà in "Lisa: The Joyful" è decisamente più onesta rispetto al gioco base, ma non per questo più semplice, anzi. Saranno pochissimi gli oggetti curativi a nostra disposizione, così come non esisterà praticamente nessun pg a darci supporto in battaglia, saremo solo noi e la nostra tattica, soli contro un mondo di spietati mostri (umani e mutanti) pronti a darci la caccia per i peggiori motivi.
Intendiamoci, The Joyful è un gioco piuttosto breve, perciò non avremo a disposizione un arsenale di mosse estremamente vario e malleabile, però sarà comunque divertente utilizzare quelle a nostra disposizione, ottenute, naturalmente, livellando la scatenata protagonista.
Degna di nota è l'aggiunta della corsa, feature che indorerà la pillola dei costanti backtracking e runback a cui saremo sottoposti.

Portare avanti una delle più belle storie del panorama videoludico, indipendente e non, mantenendo alto al contempo il livello di qualità della narrazione e dello sviluppo dei personaggi non era di certo un compito semplice, persino per la stessa mente creativa dietro la saga dei "Lisa".
The Joyful, purtroppo, non riesce totalmente nell'impresa. Sicuramente alcuni momenti sono memorabili e lo sviluppo della protagonista lascia molto a riflettere sul tema dell'autodifesa, ma è anche vero che i nuovi eventi non forniscono delle risposte soddisfacenti agli ultimi quesiti lasciati in sospeso, oltre i quali non si sentiva realmente il bisogno di questo sequel. Alcuni personaggi vengono totalmente stravolti, con il risultato di ottenere la perdita di tutto il loro senso drammatico. Ma questa è trama canonica e l'autore ha "sempre" ragione... magari in un futuro uscirà un seguito o un prequel che fornirà ulteriori chiarimenti.

Tecnicamente è possibile giocarlo senza aver prima recuperato "Lisa: the Painful", ma non lo consiglierei affatto, altrimenti non potrebbe essere totalmente comprensibile.

Alla fine si tratta di un buon rpg, ma non di certo di una perla da recuperare a tutti i costi, al contrario del prequel.



Breve avventura grafica dai toni surreali, ispirata al visionario Yume Nikki e tratta, purtroppo, da una drammatica storia vera.

Lisa: The First è una allegoria interattiva dell'abuso domestico e, soprattutto, delle profonde cicatrici che tale crimine lascia, indelebili, nella mente delle vittime.

La struttura ludica è ispirata a quella del sopracitato Yume Nikki, nella quale viene data al giocatore la possibilità di esplorare cinque livelli, ognuno con una tematica differente, nell'ordine che si preferisce, nei quali sarà possibile raccogliere oggetti per barattarli o utilizzarli al fine di risolvere piccoli enigmi.
Per quanto le premesse siano interessanti, il prodotto finale abbassa le aspettative; a mente fredda risulta molto più lineare di quel che sembra, gli enigmi sono banali e talvolta il codice di gioco esprime certe ingenuità, spiegabili tranquillamente con l'inesperienza del dev alla sua opera prima e alla gratuità del software. Inoltre, ciò passa irrimediabilmente in secondo piano, dato che il focus principale di questa esperienza rimane la trama.

Nonostante non contenga esplicitamente alcun elemento spaventoso, "Lisa: The First" riesce comunque ad inquietare il giocatore, seppur indirettamente; il disagio non scaturisce da jumpscare o immagini grottesche, quanto più dalla terrificante verità celata dietro a tutto ciò.
Non è il gioco a spaventare, ma la nostra realtà quotidiana.




Lisa: The Painful è un giavellotto d'acciaio incandescente scagliato a tutta forza verso il giocatore, nelle cui più profonde viscere penetra e si contorce, amplificando il dolore man mano che la storia progredisce.
Esistono tanti videogiochi capaci di colpire nell'animo, magari tramite l'esplorazione di tematiche personali o risvolti narrativi che aumentano l'empatia verso certe scene, ma mai come in questo caso burattino (il protagonista) e burattinaio (il videogiocatore) condividono la stessa anima, nella - quasi assente - gioia e nel - frequente - dolore.

L'intricata e complessa trama di questo indie, sequel spirituale di "Lisa: the first", ruota attorno a Brad Armstrong, un uomo burbero, solitario e dall'oscuro passato, che vedrà sconvolgere la sua vita in seguito alla scoperta di una neonata abbandonata in un mondo post-apocalittico, in cui follia e depravazione hanno avuto la meglio su ragione e umanità; Brad decide dunque di "adottarla" per tenerla al sicuro, ma, diversi anni dopo, questa ragazzina verrà rapita. Il protagonista, uomo ormai divenuto vecchio e stanco, deciderà di intraprendere un lungo viaggio per, a suo dire, trovare la giovane e salvarla dallo sfruttamento del mondo.
Ciò che colpisce maggiormente di tutta questa drammatica epopea è proprio la caratterizzazione di Brad, che per il suo ruolo nella narrazione dovrebbe essere considerato un eroe, e probabilmente è proprio quello che crede di essere, ma se osservassimo con uno sguardo più distaccato il susseguirsi di eventi e scelte, capiremmo quanto in realtà dovrebbe essere considerato alla stregua dei più beceri villain, e ciò si riflette parecchio sulla vita di tutti i giorni, su quanto sia relativa la barriera che separa il bene dal male. Quanto diritto abbiamo di decidere anche per i nostri cari cosa sia giusto o sbagliato? Non è la stessa "protezione" una forma di violenza? Oltre a questi concetti, il protagonista di LTP viene presentato come un uomo estremamente fallibile, un drogato, una persona che fa di tutto per farsi detestare ma che, al tempo stesso, pretende l'amore e l'affetto di chi gli sta intorno.
In sostanza, Brad siamo noi!
Chi per un aspetto e chi per un altro, troverà parecchia affinità con un personaggio di fantasia, colui il quale sarà chiamato a compiere diverse scelte morali che, per quanto non avranno ripercussioni sulla storia, saranno drasticamente importanti a livello di gameplay; in questo modo non è tanto il gioco a soffrire, ma siamo noi, persone reali, a subire le conseguenze delle NOSTRE scelte. E non si parla di cose di poco conto, ma di eventi che porteranno a interi rimescolamenti delle strategie messe a punto dall'inizio del gioco.

Lisa: The Painful, a differenza del suo predecessore, si presenta come un gioco di ruolo a turni occidentale, con piccoli elementi platforming, parecchio ispirato nelle meccaniche e nell'assurdità di certi combattimenti ai capolavori di Shigesato Itoi, ovvero i Mother.
Sebbene le lotte in sè per sè siano molto basilari, con qualche piccola apprezzabile eccezione, a rendere il gameplay loop più vario e divertente ci pensano i nostri compagni di squadra. Il nostro party sarà composto, come in molti giochi di questo tipo, oltre che dal protagonista, da tre individui, che possiamo "arruolare" nel nostro team tramite o, semplicemente, un pagamento, oppure piccole quest secondarie a loro collegate. Il mondo di gioco sarà pieno zeppo di possibili componenti del party, quindi non solo potremmo spezzare la "monotonia" della quest principale andando a svolgere attività differenti, ma in più avremmo una maggiore personalizzazione dello stile di combattimento e delle tattiche di gioco. Ogni npc avrà le sue peculiarità, talvolta nonsense o esagerate, e sarà sempre un piacere intercambiarli per provarli in battaglia.
Altra peculiarità di LTP è la sconfinata lista di bonus e malus, che fortunatamente non bisogna imparare a memoria grazie ad un piccolo reminder durante le lotte, alcuni dei quali rappresentano status più classici come "rabbia", "ustione" o "sanguinamento", mentre altri si differenziano per il loro "realismo", come per esempio "ubriachezza", "astinenza" o "imbarazzo" e così via. Purtroppo però solo pochi sono gli status realmente importanti e più frequenti in battaglia, dunque non sarà possibile creare build ad hoc per sfruttare al meglio determinati malus o bonus.

Il comparto artistico di questo gioco mi lascia interdetto: se da una parte mi sento di lodarlo per la sua capacità di creare scene suggestive, talvolta anche molto disturbanti, con pochissimo materiale a disposizione, dall'altra parte non posso che mostrare un certo disappunto nel vedere una scarsa varietà sia di ambientazioni che di nemici. Una parte interessante di questo setting distopico era la presenza di creature (un tempo umane) mostruosamente deformate; si aveva dunque la possibilità di creare un proprio vasto catalogo di atrocità viventi in stile "Fear & Hunger", ma ciò non è avvenuto. I nemici diversi dai semplici umani incattiviti, anch'essi dal design non troppo brillante, sono troppo pochi e molti sono simili tra loro. Stesso discorso, con ancor più convinzione, va fatto alle ambientazioni che, ok che si tratta di un setting apocalittico in cui tutto è appassito, ma riproporre per 10 ore di gioco praticamente gli stessi asset con colori e filtri leggermente diversi viene a dar noia.
Fortunatamente, in questo caso, viene in soccorso il buon level design a distogliere l'attenzione del giocatore.

Tirando le somme, Lisa: The Painful è una perla rara che, sebbene sia imperfetta, nessun amante del videogioco in quanto arte dovrebbe lasciarsi sfuggire, anche se la difficoltà, pur regolabile, potrebbe risultare proibitiva per la maggior parte delle persone. Ma si sa, il fallimento fa parte della vita e tutto quello che possiamo fare, come il nostro Brad, è cercare di accettarlo, per il bene nostro e di chi ci sta intorno.

"You don't understand. I've been dead for 35 years. Today is the day I live."

Giocare a "Evil Twin: Cyprien's Chronicles" significa vivere le ultime ore di vita di un pesciolino prima che venga pescato: inizialmente percepisci un buon profumo, ti intrighi, nuoti tutto contento, inizi a gustare pian piano l'esca... e poi, di colpo, finisce tutto; l'amo ti si conficca sul palato e vieni trascinato forzatamente a riva, luogo oltre il quale una lunga agonia precederà l'inevitabile fine di tutto.

In sintesi: questo piccolo platform di inizio epoca PS2, nonostante un inizio promettente, presenta numerosi problemi strutturali e di gameplay, sempre più gravi e invadenti con l'avanzare del tempo e, analogamente, persino una carenza di idee e un impoverimento del level deisgn.

Come ripetuto più volte, nei primi minuti di gioco assistiamo ad un incipit enormemente interessante, sia a livello di trama, che si proponeva essere una fiaba a tinte horror con tematiche e linguaggi adulti, sia artisticamente, grazie al tratto irregolare e distopico che contraddistingueva i personaggi e l'ambientazione.
Pure la musica iniziale, al tempo stesso infantile e tetra, aiutava il giocatore ad immergersi completamente nell'epopea di Cyprien, il giovane protagonista.
Tutto sommato un buon titolo, una perla nascosta made in Ubisoft, si penserebbe arrivati a questo punto... poi però, dopo poco, scoppia la bolla e viene fuori tutta la sporcizia.
La telecamera è il principale problema del gioco: la sua pessima gestibilità non permette di avere una buona visuale sul percorso da attraversare, arrivando talvolta alla totale occlusione della vista, che ci obbliga a procedere a caso, perdendo nel processo molte vite. Similmente odiosi i movimenti del protagonista, imprecisi e legnosi, che danno l'impressione di camminare costantemente su ghiaccio; questi non solo sono dannosi per le semplici parti in cui bisogna fuggire da un nemico o combatterlo, ma principalmente per le sezioni platforming, frustranti oltremisura.
Ipotizzando anche che tutti questi elementi possano essere soprassedibili, non svanirebbe comunque la sensazione di disagio nel giocatore che, oltre a esperire salvataggi corrotti e glitch di ogni tipo, più o meno influenti, spesso si troverà incapace di avanzare nella storia per il semplice motivo che... non gli si viene spiegato cosa fare. Non sempre le indicazioni del diario di Cyprien basteranno, quindi saranno frequenti, soprattutto nelle ultime sezioni di gioco, momenti in cui bisognerà compiere insensate azioni anti intuitive per aprire una porta, sconfiggere un nemico o risolvere un enigma, per poi procedere ad una sezione successiva con lo stesso problema.

Portare a termine Evil Twin è stata un'agonia che non augurerei a nessuno. Persino la storia, dapprima affascinante e misteriosa, si è conclusa in un nulla di fatto, privata del suo scopo originario.
Sembra che gli sviluppatori avessero in mente un seguito, poi cancellato da Ubisoft per le scarse vendite del primo, ma se la qualità sarebbe stata invariata... forse dobbiamo ritenerci fortunati.

Sarebbe anche bello, ma l'art direction è troppo confusionaria e disorientante.
Lo finirò più avanti, anche se già ho i miei sospetti sul killer.

Se non avete voglia di leggere, la sintesi di questa recensione è: "Tutta questione di aspettative".

Concrete Genie ci riporta all'infanzia, a quando non esigevamo titoli dalla grafica "spacca-mascella", a quando non servivano trecento ore di gioco, per sentirci soddisfatti o venti tipi diversi di quest secondarie per intrattenerci.
Il gameplay di CG non possiede una grande varietà, anzi, per gran parte del tempo mantiene sempre lo stesso stile di gioco, piuttosto evanescente nelle sue caratteristiche. Di concreto, però, qualcosa esiste ed è la nostra fantasia. Noi giocatori siamo chiamati in prima persona a colmare i solchi lasciati dalla superficialità di questo videogioco, proprio tramite quell'immaginazione che eravamo soliti usare da bambini, anche con avventure mediocri.
Tutto quello che dovremmo fare per la maggior parte del tempo sarà dar vita con il nostro pennello magico ai grigi muri di Denska, una cittadina portuale inquinata e disabitata, ad eccezione di un gruppetto di giovani bulli che proveranno a metterci i bastoni tra le ruote.
Tralasciando la scialba e retorica parte narrativa incentrata sul bullismo, delicato argomento che avrebbe meritato una più approfondita e seria analisi, la peculiarità di questo gioco è senza dubbio la pittura, che saremo noi stessi a gestire in prima persona, muovendo e inclinando pad come se fosse un pennello. Certo, i disegni sono già precostruiti, ma dovremo attingere al nostro estro artistico per modificarli o combinarli tra di loro. Alla fine di ogni "lavoro" daremo vita non solo a meravigliosi murales, ma anche a vere e proprie creature, che ci aiuteranno, in maniera diversa a seconda delle proprie caratteristiche, a risolvere enigmi ambientali e a depurare la città.
Il gameplay loop è piacevolissimo e soddisfacentemente personalizzabile, non solo nell'immediato ma fino alla fine della storia; a seconda di quello che disegneremo, animazioni, cutscene ed estetica di alcuni personaggi si adatteranno infatti alla nostra arte.
Alla fine il gioco è tutto qui. Una piccola perla deliziosa e divertente, imperdibile e preziosa.

O meglio, questo sarebbe stato l'ideale, se solo il team di PixelOpus non avesse voluto andare oltre, forse nel tentativo di raggiungere le alte aspettative causate dall'essere una esclusiva first party di Sony.

Oltre alle sezioni "artistiche", verranno aggiunte delle insignificanti parti stealth, del tutto evitabili, e una più consistente parte action, tristemente ingestibile. Tutto questo non ha senso di esistere, rovina solo l'esperienza rilassata e intimistica che poche produzioni odierne riescono a fornire.
Inoltre, sebbene la direzione artistica di questo gioco sia eccellente, con uno stile quasi fumettistico e le animazioni che si rifanno alla tecnica stopmotion, il suo aspetto tecnico lascia molto a desiderare a causa di un framerate ingiustificatamente instabile e di alcune imperfezioni grafiche, quali pop up a schermo o texture dalla scarsa risoluzione.
Aggiungiamo a tutto questo dei dialoghi imbarazzanti per la loro banalità e per il loro slang da "falsi giovani", tanto caro a chi di gioventù reale sa poco e niente. L'unico personaggio scritto bene, per cui arrivi ad empatizzare, e anche tanto, non parla proprio, e ciò significa parecchio.

Il problema più grande di Concrete Genie è la sua natura di esclusiva PS4 (e PSVR), che va a "snaturare" la sua vera essenza, quella di gioco indipendente sperimentale. In questo modo si sono create troppe aspettative su un'opera che, pur di raggiungere l'altezza minima richiesta da certi standard, si sforza di rimanere per ore faticosamente in punta di piedi. E purtroppo si nota.
Ciò mi crea un grande dispiacere, poiché esperienze simili non capitano tutti i giorni nel panorama videoludico e di Concrete Genie, nonostante tutto, mi rimarranno solamente bei ricordi. Da giocare.

L'arte è comunicazione silenziosa, una linea sottile che unisce i cuori delle persone, anche quelli apparentemente molto distanti l'uno dall'altro.