Breve avventura grafica dai toni surreali, ispirata al visionario Yume Nikki e tratta, purtroppo, da una drammatica storia vera.

Lisa: The First è una allegoria interattiva dell'abuso domestico e, soprattutto, delle profonde cicatrici che tale crimine lascia, indelebili, nella mente delle vittime.

La struttura ludica è ispirata a quella del sopracitato Yume Nikki, nella quale viene data al giocatore la possibilità di esplorare cinque livelli, ognuno con una tematica differente, nell'ordine che si preferisce, nei quali sarà possibile raccogliere oggetti per barattarli o utilizzarli al fine di risolvere piccoli enigmi.
Per quanto le premesse siano interessanti, il prodotto finale abbassa le aspettative; a mente fredda risulta molto più lineare di quel che sembra, gli enigmi sono banali e talvolta il codice di gioco esprime certe ingenuità, spiegabili tranquillamente con l'inesperienza del dev alla sua opera prima e alla gratuità del software. Inoltre, ciò passa irrimediabilmente in secondo piano, dato che il focus principale di questa esperienza rimane la trama.

Nonostante non contenga esplicitamente alcun elemento spaventoso, "Lisa: The First" riesce comunque ad inquietare il giocatore, seppur indirettamente; il disagio non scaturisce da jumpscare o immagini grottesche, quanto più dalla terrificante verità celata dietro a tutto ciò.
Non è il gioco a spaventare, ma la nostra realtà quotidiana.




Lisa: The Painful è un giavellotto d'acciaio incandescente scagliato a tutta forza verso il giocatore, nelle cui più profonde viscere penetra e si contorce, amplificando il dolore man mano che la storia progredisce.
Esistono tanti videogiochi capaci di colpire nell'animo, magari tramite l'esplorazione di tematiche personali o risvolti narrativi che aumentano l'empatia verso certe scene, ma mai come in questo caso burattino (il protagonista) e burattinaio (il videogiocatore) condividono la stessa anima, nella - quasi assente - gioia e nel - frequente - dolore.

L'intricata e complessa trama di questo indie, sequel spirituale di "Lisa: the first", ruota attorno a Brad Armstrong, un uomo burbero, solitario e dall'oscuro passato, che vedrà sconvolgere la sua vita in seguito alla scoperta di una neonata abbandonata in un mondo post-apocalittico, in cui follia e depravazione hanno avuto la meglio su ragione e umanità; Brad decide dunque di "adottarla" per tenerla al sicuro, ma, diversi anni dopo, questa ragazzina verrà rapita. Il protagonista, uomo ormai divenuto vecchio e stanco, deciderà di intraprendere un lungo viaggio per, a suo dire, trovare la giovane e salvarla dallo sfruttamento del mondo.
Ciò che colpisce maggiormente di tutta questa drammatica epopea è proprio la caratterizzazione di Brad, che per il suo ruolo nella narrazione dovrebbe essere considerato un eroe, e probabilmente è proprio quello che crede di essere, ma se osservassimo con uno sguardo più distaccato il susseguirsi di eventi e scelte, capiremmo quanto in realtà dovrebbe essere considerato alla stregua dei più beceri villain, e ciò si riflette parecchio sulla vita di tutti i giorni, su quanto sia relativa la barriera che separa il bene dal male. Quanto diritto abbiamo di decidere anche per i nostri cari cosa sia giusto o sbagliato? Non è la stessa "protezione" una forma di violenza? Oltre a questi concetti, il protagonista di LTP viene presentato come un uomo estremamente fallibile, un drogato, una persona che fa di tutto per farsi detestare ma che, al tempo stesso, pretende l'amore e l'affetto di chi gli sta intorno.
In sostanza, Brad siamo noi!
Chi per un aspetto e chi per un altro, troverà parecchia affinità con un personaggio di fantasia, colui il quale sarà chiamato a compiere diverse scelte morali che, per quanto non avranno ripercussioni sulla storia, saranno drasticamente importanti a livello di gameplay; in questo modo non è tanto il gioco a soffrire, ma siamo noi, persone reali, a subire le conseguenze delle NOSTRE scelte. E non si parla di cose di poco conto, ma di eventi che porteranno a interi rimescolamenti delle strategie messe a punto dall'inizio del gioco.

Lisa: The Painful, a differenza del suo predecessore, si presenta come un gioco di ruolo a turni occidentale, con piccoli elementi platforming, parecchio ispirato nelle meccaniche e nell'assurdità di certi combattimenti ai capolavori di Shigesato Itoi, ovvero i Mother.
Sebbene le lotte in sè per sè siano molto basilari, con qualche piccola apprezzabile eccezione, a rendere il gameplay loop più vario e divertente ci pensano i nostri compagni di squadra. Il nostro party sarà composto, come in molti giochi di questo tipo, oltre che dal protagonista, da tre individui, che possiamo "arruolare" nel nostro team tramite o, semplicemente, un pagamento, oppure piccole quest secondarie a loro collegate. Il mondo di gioco sarà pieno zeppo di possibili componenti del party, quindi non solo potremmo spezzare la "monotonia" della quest principale andando a svolgere attività differenti, ma in più avremmo una maggiore personalizzazione dello stile di combattimento e delle tattiche di gioco. Ogni npc avrà le sue peculiarità, talvolta nonsense o esagerate, e sarà sempre un piacere intercambiarli per provarli in battaglia.
Altra peculiarità di LTP è la sconfinata lista di bonus e malus, che fortunatamente non bisogna imparare a memoria grazie ad un piccolo reminder durante le lotte, alcuni dei quali rappresentano status più classici come "rabbia", "ustione" o "sanguinamento", mentre altri si differenziano per il loro "realismo", come per esempio "ubriachezza", "astinenza" o "imbarazzo" e così via. Purtroppo però solo pochi sono gli status realmente importanti e più frequenti in battaglia, dunque non sarà possibile creare build ad hoc per sfruttare al meglio determinati malus o bonus.

Il comparto artistico di questo gioco mi lascia interdetto: se da una parte mi sento di lodarlo per la sua capacità di creare scene suggestive, talvolta anche molto disturbanti, con pochissimo materiale a disposizione, dall'altra parte non posso che mostrare un certo disappunto nel vedere una scarsa varietà sia di ambientazioni che di nemici. Una parte interessante di questo setting distopico era la presenza di creature (un tempo umane) mostruosamente deformate; si aveva dunque la possibilità di creare un proprio vasto catalogo di atrocità viventi in stile "Fear & Hunger", ma ciò non è avvenuto. I nemici diversi dai semplici umani incattiviti, anch'essi dal design non troppo brillante, sono troppo pochi e molti sono simili tra loro. Stesso discorso, con ancor più convinzione, va fatto alle ambientazioni che, ok che si tratta di un setting apocalittico in cui tutto è appassito, ma riproporre per 10 ore di gioco praticamente gli stessi asset con colori e filtri leggermente diversi viene a dar noia.
Fortunatamente, in questo caso, viene in soccorso il buon level design a distogliere l'attenzione del giocatore.

Tirando le somme, Lisa: The Painful è una perla rara che, sebbene sia imperfetta, nessun amante del videogioco in quanto arte dovrebbe lasciarsi sfuggire, anche se la difficoltà, pur regolabile, potrebbe risultare proibitiva per la maggior parte delle persone. Ma si sa, il fallimento fa parte della vita e tutto quello che possiamo fare, come il nostro Brad, è cercare di accettarlo, per il bene nostro e di chi ci sta intorno.

"You don't understand. I've been dead for 35 years. Today is the day I live."

Giocare a "Evil Twin: Cyprien's Chronicles" significa vivere le ultime ore di vita di un pesciolino prima che venga pescato: inizialmente percepisci un buon profumo, ti intrighi, nuoti tutto contento, inizi a gustare pian piano l'esca... e poi, di colpo, finisce tutto; l'amo ti si conficca sul palato e vieni trascinato forzatamente a riva, luogo oltre il quale una lunga agonia precederà l'inevitabile fine di tutto.

In sintesi: questo piccolo platform di inizio epoca PS2, nonostante un inizio promettente, presenta numerosi problemi strutturali e di gameplay, sempre più gravi e invadenti con l'avanzare del tempo e, analogamente, persino una carenza di idee e un impoverimento del level deisgn.

Come ripetuto più volte, nei primi minuti di gioco assistiamo ad un incipit enormemente interessante, sia a livello di trama, che si proponeva essere una fiaba a tinte horror con tematiche e linguaggi adulti, sia artisticamente, grazie al tratto irregolare e distopico che contraddistingueva i personaggi e l'ambientazione.
Pure la musica iniziale, al tempo stesso infantile e tetra, aiutava il giocatore ad immergersi completamente nell'epopea di Cyprien, il giovane protagonista.
Tutto sommato un buon titolo, una perla nascosta made in Ubisoft, si penserebbe arrivati a questo punto... poi però, dopo poco, scoppia la bolla e viene fuori tutta la sporcizia.
La telecamera è il principale problema del gioco: la sua pessima gestibilità non permette di avere una buona visuale sul percorso da attraversare, arrivando talvolta alla totale occlusione della vista, che ci obbliga a procedere a caso, perdendo nel processo molte vite. Similmente odiosi i movimenti del protagonista, imprecisi e legnosi, che danno l'impressione di camminare costantemente su ghiaccio; questi non solo sono dannosi per le semplici parti in cui bisogna fuggire da un nemico o combatterlo, ma principalmente per le sezioni platforming, frustranti oltremisura.
Ipotizzando anche che tutti questi elementi possano essere soprassedibili, non svanirebbe comunque la sensazione di disagio nel giocatore che, oltre a esperire salvataggi corrotti e glitch di ogni tipo, più o meno influenti, spesso si troverà incapace di avanzare nella storia per il semplice motivo che... non gli si viene spiegato cosa fare. Non sempre le indicazioni del diario di Cyprien basteranno, quindi saranno frequenti, soprattutto nelle ultime sezioni di gioco, momenti in cui bisognerà compiere insensate azioni anti intuitive per aprire una porta, sconfiggere un nemico o risolvere un enigma, per poi procedere ad una sezione successiva con lo stesso problema.

Portare a termine Evil Twin è stata un'agonia che non augurerei a nessuno. Persino la storia, dapprima affascinante e misteriosa, si è conclusa in un nulla di fatto, privata del suo scopo originario.
Sembra che gli sviluppatori avessero in mente un seguito, poi cancellato da Ubisoft per le scarse vendite del primo, ma se la qualità sarebbe stata invariata... forse dobbiamo ritenerci fortunati.

Sarebbe anche bello, ma l'art direction è troppo confusionaria e disorientante.
Lo finirò più avanti, anche se già ho i miei sospetti sul killer.

Se non avete voglia di leggere, la sintesi di questa recensione è: "Tutta questione di aspettative".

Concrete Genie ci riporta all'infanzia, a quando non esigevamo titoli dalla grafica "spacca-mascella", a quando non servivano trecento ore di gioco, per sentirci soddisfatti o venti tipi diversi di quest secondarie per intrattenerci.
Il gameplay di CG non possiede una grande varietà, anzi, per gran parte del tempo mantiene sempre lo stesso stile di gioco, piuttosto evanescente nelle sue caratteristiche. Di concreto, però, qualcosa esiste ed è la nostra fantasia. Noi giocatori siamo chiamati in prima persona a colmare i solchi lasciati dalla superficialità di questo videogioco, proprio tramite quell'immaginazione che eravamo soliti usare da bambini, anche con avventure mediocri.
Tutto quello che dovremmo fare per la maggior parte del tempo sarà dar vita con il nostro pennello magico ai grigi muri di Denska, una cittadina portuale inquinata e disabitata, ad eccezione di un gruppetto di giovani bulli che proveranno a metterci i bastoni tra le ruote.
Tralasciando la scialba e retorica parte narrativa incentrata sul bullismo, delicato argomento che avrebbe meritato una più approfondita e seria analisi, la peculiarità di questo gioco è senza dubbio la pittura, che saremo noi stessi a gestire in prima persona, muovendo e inclinando pad come se fosse un pennello. Certo, i disegni sono già precostruiti, ma dovremo attingere al nostro estro artistico per modificarli o combinarli tra di loro. Alla fine di ogni "lavoro" daremo vita non solo a meravigliosi murales, ma anche a vere e proprie creature, che ci aiuteranno, in maniera diversa a seconda delle proprie caratteristiche, a risolvere enigmi ambientali e a depurare la città.
Il gameplay loop è piacevolissimo e soddisfacentemente personalizzabile, non solo nell'immediato ma fino alla fine della storia; a seconda di quello che disegneremo, animazioni, cutscene ed estetica di alcuni personaggi si adatteranno infatti alla nostra arte.
Alla fine il gioco è tutto qui. Una piccola perla deliziosa e divertente, imperdibile e preziosa.

O meglio, questo sarebbe stato l'ideale, se solo il team di PixelOpus non avesse voluto andare oltre, forse nel tentativo di raggiungere le alte aspettative causate dall'essere una esclusiva first party di Sony.

Oltre alle sezioni "artistiche", verranno aggiunte delle insignificanti parti stealth, del tutto evitabili, e una più consistente parte action, tristemente ingestibile. Tutto questo non ha senso di esistere, rovina solo l'esperienza rilassata e intimistica che poche produzioni odierne riescono a fornire.
Inoltre, sebbene la direzione artistica di questo gioco sia eccellente, con uno stile quasi fumettistico e le animazioni che si rifanno alla tecnica stopmotion, il suo aspetto tecnico lascia molto a desiderare a causa di un framerate ingiustificatamente instabile e di alcune imperfezioni grafiche, quali pop up a schermo o texture dalla scarsa risoluzione.
Aggiungiamo a tutto questo dei dialoghi imbarazzanti per la loro banalità e per il loro slang da "falsi giovani", tanto caro a chi di gioventù reale sa poco e niente. L'unico personaggio scritto bene, per cui arrivi ad empatizzare, e anche tanto, non parla proprio, e ciò significa parecchio.

Il problema più grande di Concrete Genie è la sua natura di esclusiva PS4 (e PSVR), che va a "snaturare" la sua vera essenza, quella di gioco indipendente sperimentale. In questo modo si sono create troppe aspettative su un'opera che, pur di raggiungere l'altezza minima richiesta da certi standard, si sforza di rimanere per ore faticosamente in punta di piedi. E purtroppo si nota.
Ciò mi crea un grande dispiacere, poiché esperienze simili non capitano tutti i giorni nel panorama videoludico e di Concrete Genie, nonostante tutto, mi rimarranno solamente bei ricordi. Da giocare.

L'arte è comunicazione silenziosa, una linea sottile che unisce i cuori delle persone, anche quelli apparentemente molto distanti l'uno dall'altro.

Bluepoint Games è una software house dall'enorme talento, che, nonostante un esordio nel settore non proprio esaltante, meriterebbe di ricevere tutto il budget possibile per creare un proprio gioco originale, senza passare per remasterizzazioni, porting o remake.
Ad oggi, tuttavia, solo di questi dobbiamo accontentarci (e goderci).

Demon's Souls rappresenta indubbiamente una delle produzioni, in esclusiva Playstation 5, più importanti della nona generazione, specialmente in relazione al comparto grafico. Già con Shadow of the Colossus, in uscita su PS4, si poteva notare tutto il talento degli sviluppatori americani nella cura della realizzazione di ogni dettaglio estetico e dalla rielaborazione artistica del materiale originale, tanto reimmaginata quanto fedele, regalandoci paesaggi maestosi a perdita d'occhio. Con la stessa qualità, anzi, con le dovute migliorie rese possibili grazie all'hardware di nuova generazione, è venuto alla luce il remake dello storico Demon's Souls, un diamante grezzo che avrebbe portato alla creazione di Dark Souls che, a sua volta, avrebbe rivoluzionato il mercato videoludico.
Nel mettere mano ad un'opera di così grande importanza ci sarà sicuramente stato un certo timore reverenziale tra i dev, che purtroppo si è manifestato in alcuni aspetti del gioco in questione; dal ritmo del combattimento alle meccaniche di peso, Demon's Souls Remake non coglie l'occasione di privarsi di elementi ludici che già ai tempi risultavano datati, la cui assenza tuttavia non avrebbe snaturato l'essenza dell'action jrpg di From Software. Il level design di alcune aree di gioco continua a risultare artificiosamente difficile e poco soddisfacente da esplorare, mentre in altri casi si ha la situazione opposta, in cui viene enormemente premiata l'esplorazione, sia ludicamente che visivamente.
All'interno di Demon's Souls, inoltre, sono presenti certe meccaniche che non vengono onestamente spiegate, magari tramite indizi segreti o tutorial, e questo un po' rovina, non tanto la prima, quanto l'esperienza del ng+.

Tuttavia, per quanto siano comprensibili queste ruvidità non eliminate dal gioco, giustificabili con il senso di continuità con l'originale, è inspiegabile come Bluepoint Games e From Software abbiano mancato l'enorme occasione di rimediare alla più grande mancanza di Demon Souls: la sesta arcipietra. Originariamente, tale livello, fu cancellato dalla produzione per una mancanza di tempo e budget, dunque sarebbe stato perfetto se fosse stato inserito in questo remake, rinato dai progetti e dagli appunti del team di From. Ciò, purtroppo, non è mai avvenuto, lasciando l'amaro in bocca non tanto a chi giocava a DS per la prima volta (me compreso), quanto ai fan di vecchia data, dai tempi PS3.

Un altro aspetto rimesso a nuovo in questo remake è la colonna sonora, sempre molto fedele all'originale ma con diverse tonalità, molto ben riuscite, che donano all'opera un'aura di maggior mistero e di una, per così dire, "epica rassegnazione", manifestata tramite le storie dei personaggi che incontreremo, la quale delineerà l'evanescente lore del mondo di Boletaria & Co.

Pertanto, a far da contraltare ad un gameplay vecchio e spigoloso, ci pensa l'eccellente direzione artistica e sonora, oltre ad una bellissima storia introspettiva ed esistenzialista, nata dalla penna di un allora inesperto (ma futuro maestro) Hidetaka Miyazaki.
Esperienza che ogni possessore di PS5 dovrebbe vivere.

"You fool... Don't you understand? No one wishes to go on..."

Kingdom Hearts è sicuramente un gioco propositivo, che fornisce al giocatore una grande quantità di attività, principali e secondarie, atte a variare il flusso di gameplay con idee interessanti, una su tutte la personalizzazione della propria navicella spaziale e il sistema di abilità.
In teoria, dunque, non ci dovrebbe essere alcun problema... purché anche tutto ciò che le concretizzi sia stato progettato con cura.

No, non è così.

Forse è semplicemente invecchiato male nel 2024, forse è la mia scarsa attrazione verso il mondo Disney a parlare, o magari sto fraintendendo il target di riferimento, ma più ci penso più non mi capacito di come, in 22 anni, KH abbia riscosso un successo tra pubblico e critica tale da arrivare ad essere una delle saghe più impattanti nella cultura popolare e nei cuori dei giocatori.
Registicamente è inguardabile, filmati e dialoghi sembrano andare ognuno per una propria direzione, il sistema di combattimento è legnoso, ripetitivo e con un targeting ingestibile, le fasi di esplorazione sono ingessate a causa dei salti schizzati ed imprevedibili e a causa di una telecamera che esiste per il solo scopo di metterci i bastoni tra le ruote, le sezioni di nuoto o di volo sono ingiocabili, la storia è più infantile, retorica e stupida di un gioco di Super Mario e i personaggi sono perlopiù stereotipati. Potrei continuare ancora a lungo, ma ho reso il concetto; l'unico elemento che non ha colpe, anche perché si poggia su basi già consolidate negli anni, è la colonna sonora di Yoko Shimomura, apprezzabile anche nel materiale originale.

Se l'avessi giocato da piccolo mi sarebbe sicuramente piaciuto di più, ma non sarei stato obiettivo, perché avrei colpevolmente sorvolato su diversi problemi dai quali è impossibile voltare lo sguardo.

Personalmente non lo consiglierei a nessuno, se non agli amanti dei classici Disney e a chi vuole aumentare il proprio bagaglio culturale videoludico, giocandosi un pezzo di (a mio parere "sopravvalutata") storia videoludica.

Quando la semplicità può portare a grandi risultati.

Humanity è fatto così. Gioco dalle semplici meccaniche e dalla semplice realizzazione tecnica. Semplice, ma non banale.
Così come ogni casa è costruita partendo da semplici mattoni, Humanity è costituito partendo da semplici meccaniche e semplici texture che, messe insieme da sapienti menti creative, danno vita ad un puzzle game sorprendentemente versatile, che saprà intrattenere anche i più appassionati del genere.
Stesso discorso va applicato alla direzione artistica, la quale, specialmente nelle parti finali, regala coreografie geometriche impressionanti, al cui confronto non potremo far altro che sentirci insignificanti.

Quel che si può dire della storia, senza privare il paziente (o pazzo?) lettore del gusto della scoperta, lo suggerisce il titolo stesso: Humanity sarà una grande riflessione filosofica sul concetto di umanità, in cui verranno posti quesiti sulla sua essenza e sul suo percorso verso un imperscrutabile destino.
Sebbene ciò non sia una novità nella narrazione videoludica, rimane comunque uno spunto interessante su cui riflettere nella vita quotidiana.

La semplicità è anche relax. Certi enigmi risulteranno parecchio difficili da risolvere, ma la sperimentale ed armonica colonna sonora attutirà ogni nostro stress, rendendo il processo di "trial and error" per nulla svilente, anzi, si verrà incentivati a provare e riprovare ogni livello fino a trovare la soluzione più ottimizzata e funzionale possibile.

Il protagonista, un frammento di luce pura a forma di cane, dovrà guidare l'umanità al termine del livello per completare il puzzle, e per farlo avrà a disposizione una serie di "segnali stradali" da posizionare in giro per la mappa. Il controllo di questo personaggio sarà dunque di vitale importanza per la corretta fruizione del gioco; per quanto, pad alla mano, comandare questo lucente cagnolino sia piacevole, risulta altresì super limitante, dato che non sempre potremmo raggiungere comodamente ogni anfratto del livello, anche quando servirebbe un tempismo preciso. Tal cosa può essere vista come "difficoltà aggiuntiva", ma in realtà è solo una "difficoltà artificiale" che non aggiunge niente di più all'esperienza complessiva.

Da apprezzare, inoltre, la modalità "area personalizzata", in cui sarà possibile, con un editor ricco ed intuitivo, creare dei propri livelli da condividere alla comunità, in cui far sfoggio di tutta la propria creatività.

Se cercate un esperienza rilassata ma non per questo facile e banale, Humanity è ciò che fa al caso vostro. Uno dei migliori puzzle game degli ultimi tempi. E pure in VR. Nice.

"Woof woof!"

"Do you like hurting other people?"

L'America di fine anni 80 raccontata in tutta la sua violenza, tra surreali sequenze oniriche e sanguinose epurazioni di russi in suolo statunitense.
Un normale venerdì sera a Miami.

In realtà, quella che può sembrare l'esaltazione di quell'estremo patriottismo americano da perseguire con ogni mezzo disponibile, si dimostra ben presto essere l'opposto; il videogioco, che fa del gore gratuito il suo punto di forza, non è altro che una pesante critica alla violenza stessa, per la quale noi giocatori - che siamo "obbligati" a farne uso - arriveremmo a sentirci in colpa una volta terminata la nostra missione.
Tramite il punto di vista del silenzioso protagonista, del cui passato non sapremo mai nulla, saremo partecipi dei traumi e disturbi mentali derivati dall'uso smodato di violenza, anche se rivolta a individui armati e malvagi. Tali momenti, collegati all'aspetto psicologico dell'individuo, avranno una connotazione più surreale e horror, in pieno stile Lynch, fonte di ispirazione dichiarata dagli sviluppatori stessi. A livello prettamente ludico, queste situazioni speciali rappresentano un ottimo stacco dalla routine estenuante di continui massacri, anche se è andata perduta l'opportunità di inserire più contenuti di questo tipo per variare l'esperienza, di per sè molto stancante. Il gameplay loop è piacevole, ma la sua altissima difficoltà e l'elevata rapidità di azione e di riflessi renderebbe necessario un riposo mentale più consistente dopo un certo numero di livelli, e l'unica sezione non-action non basta allo scopo.
Ma questo non è l'unico problema del gameplay di Hotline Miami, ci sono invero diversi dettagli che interferiscono pesantemente sull'esperienza generale, primo su tutti... LE PORTE! Quelle dannate porte! Saranno loro i nemici più temibili del gioco. Possono essere aperte in ogni direzione, ma se dovessi averne una nelle vicinanze al momento di uno sparo o di un colpo con arma fisica, gli avversari non verranno colpiti in alcun modo, ma potranno a loro volta colpire il protagonista, che, come sempre, morirà in un colpo solo; in un gioco frenetico dove devi fare attenzione ad ogni possibile nemico che giunge da qualsiasi parte della mappa per ucciderti, il dover tener dietro anche al movimento erratico ed imprevedibile delle porte risulta tremendamente fastidioso. Stesso discorso vale per le collisioni con gli angoli di porte o ingressi ad un'altra stanza, che rischiano di bloccarti quel secondo di troppo che avrà come conseguenza la tua dipartita. E poi, dulcis in fundo, ogni tanto capiterà di non mandare a segno qualche colpo con arma da fuoco, sempre che si sia riuscito a mirare con precisione tramite una mira manuale poco precisa e/o una mira automatica scomoda da usare. Dettagli che non annullano di certo tutto il divertimento derivato dall'ottimo level design, dalle numerose tipologie di armi a disposizione e dalle disparate abilità da sbloccare livello dopo livello, però gli impediscono di spiccare il volo.

Esteticamente, pur essendo un indie in pixel art con visuale dall'alto, Hotline Miami possiede un fascino particolare e iconico, dettato da uno stile vaporwave che mette in risalto tutti i suoi aspetti grotteschi e violenti. Molto curate pure le animazioni, che aiutano a comprendere meglio i caratteri dei vari personaggi. Piacevoli anche gli asset utilizzati, sebbene non sempre siano distinguibili le pareti trasparenti (attraverso le quali ci si può far scoprire) dalle pareti normali.
Collegata a doppio filo si presenta la colonna sonora, che varia da brani techno a brani ambientali o metal, a seconda della situazione fisica e psicologica del protagonista.

Inversamente a quel che ci si aspetterebbe, Hotline Miami è un'ottima produzione indipendente, fortemente incentrata sulle sezioni action arcade ma il cui fiore all'occhiello risiede nella trama e nella sua narrazione silenziosa. Il finale potrebbe destare qualche perplessità, inizialmente, ma se il giocatore sarà attento e coglierà tutti gli indizi lasciati dai dialoghi o dalle scene di gameplay puro, allora potrà visualizzare il quadro generale e apprezzare il grande lavoro svolto dagli sviluppatori e scrittori.
La difficoltà elevata e la sua ormai datata uscita, lo rende un titolo destinato ad una piccola nicchia di appassionati di videogiochi (e anche di film), ma saprà dare grande soddisfazione a chi avrà la pazienza, e lo stomaco, di portarlo a termine.

"They were all scum anyway, weren’t they?"

2022

Non mi sarei aspettato nulla di meno da un gioco che sin dai primi trailer mi aveva stregato. Ho dovuto aspettare due anni prima di metterci le mani sopra, ma l'eterna e indissolubile pazienza mi ha temprato mente e spirito, preparandomi così alla battaglia senza fine di Sifu.

Sebbene possa apparire come un gioco semplice, con poche combo e nemici simili tra loro, Sifu riesce a sorprendere il giocatore con un gameplay fluido e appagante; stendere chiunque si ponga davanti a noi, uno dopo l'altro in un vortice di schivate, parate e contrattacchi alternati nel giusto tempismo, diventerà un guilty pleasure, grazie al quale sarà possibile, anche solo per una breve sessione di gioco, sentirsi estremamente potenti. Una droga senza effetti collaterali, in pratica.
Grazie alle ultime patch, sarà possibile scegliere con quale difficoltà approcciarsi al gioco: facile, originale o hardcore. Scegliendo l'opzione media, si potrà vivere il gioco così come era stato pensato inizialmente, ovvero con una curva di difficoltà molto ripida all'inizio, ma che, una volta padroneggiati certi meccanismi, col tempo diverrà quasi piatta; ciò significa che l'arduo impatto iniziale servirà da "terapia d'urto" per indirizzare il giocatore verso un'esperienza action il meno frustrante possibile, pur non scendendo a compromessi con la difficoltà generale.
Ciò che diversifica questo "beat 'em up" rispetto alla concorrenza è senza dubbio la meccanica dell'invecchiamento: in caso di morte potrai tornare in vita, ma con un'età avanzata; si parte a 20 anni e si otterrà un "game over" una volta sconfitti dopo aver superato i 70. Inizialmente potrebbero sembrare tantissimi 50 anni, ma per terminare la main quest sarà necessario svolgere tutti i livelli senza poter ringiovanire ulteriormente, salvo cancellare i progressi di una determinata zona, e ben presto ci si renderà conto che 50 "tentativi" sono esigui. Questa meccanica serve da deterrente: per poter padroneggiare adeguatamente Sifu sarà necessario avere pazienza e allenarsi costantemente, pazienza che è d'obbligo, in questo caso, se non si vuole arrivare a giocarsi più di metà campagna a 70 anni suonati.
Ogni boss di fine livello, il picco di difficoltà di ogni sezione, sarà specializzato in un particolare stile di combattimento e avrà un moveset sì punitivo, ma al tempo stesso leggibile e premiante per chi non agisce passivamente.
Di pari passo con il gameplay, se non a ritmo più elevato, viaggia l'art design del gioco, splendido e originale, che riesce a regalare al giocatore splendidi scorci di paesaggio, giochi di luci e di colori, con una potenza espressiva raramente riscontrata in altre opere di maggior rilievo mediatico. In questo senso, il terzo livello, quello del museo, rappresenta l'apice della potenza creativa di questo talentuoso team emergente.
Più generalmente, su PS4, a livello grafico il gioco è roccioso, molto fluido e costante, con solo qualche piccolo pop up a schermo durante le fasi iniziali dei livelli all'aperto, ma nulla di fastidioso.

I personaggi rilevanti all'interno delle vicende qui narrate sono pochissimi, si contano sulla punta delle dita, ma ognuno di loro possiede un'ottima caratterizzazione, talvolta con dei risvolti sorprendenti.
Peccato però che questo lavoro di approfondimento sui personaggi sia lasciato a se stesso, dato che non viene accompagnato da un comparto narrativo adeguato.
La storia di Sifu parte benissimo, in medias res, con un omicidio e un giuramento di vendetta del protagonista, in pieno stile "Kill Bill". Sostanzialmente però la storia finisce lì. Pochissime saranno le linee di dialogo del giovane lottatore, che sembra vivere le fasi della sua vendetta in maniera distaccata. Sarà possibile ottenere un diverso punto di vista sulla nostra "missione" tramite la raccolta di documenti o oggetti nascosti, che però porterà soltanto ad un true ending scontato e dimenticabile.
Davvero un gran peccato, perché l'unico fattore che vieta a Sifu di essere considerato un vero capolavoro indie è proprio questa pigrizia nella realizzazione della trama. Inspiegabile, sarebbe bastato davvero poco sforzo in più per ottenere tale risultato.
Non va dimenticato però che il cuore pulsante di questo titolo risiede nella sua anima da picchiaduro arcade, quindi la storia passa in secondo piano in questo caso.

Ad ogni modo, Sifu è un eccellente videogioco, brillante portabandiera della poco esplorata cultura cinese e assuefacente picchiaduro action. Se poi il tutto lo condiamo con un pizzico di elementi rouge-lite e di fasi esplorative, non può che uscirne una leccornia da non lasciarsi sfuggire.
La difficoltà potrà essere proibitoria, ma con l'aggiunta della modalità "facile" non esistono più scuse per non recuperarlo.
Giocatelo e godetevelo fino alla fine.

"That violence breeds violence! But in the end it has to be this way..."


Questo gioco significa molto per me, in quanto ultimo sequel di quello che è stato il gioco più importante per la mia crescita videoludica, ovvero "Syberia" (e "Syberia II", che funge da secondo atto della stessa storia).

Dopo un deludentissimo Syberia 3, il team di Microids Paris, con a capo il fumettista belga Benoit Sokal, decide di voler rimediare al su citato flop con una nuova continuazione delle avventure di Kate Walker, innovando sotto ogni aspetto l'andamento della saga, al punto da rinnegare gli eventi accaduti nel precedente capitolo.
Syberia: The World Before (che, come potete notare, non è un titolo enumerato) rompe i canoni della serie, aggiungendo parallelamente alle avventure della nostra ex-avvocatessa di New York, schiavizzata e rinchiusa in una prigione di sale, le vicende di un altro personaggio, una giovane musicista Vagheniana alle prese con l'ascesa del partito di estrema destra dell'Ombra Bruna (tradotto dal syberiese: una musicista ebrea vissuta nella Polonia del 1937, poco prima dello sterminio razziale perpetrato dai nazisti).
Le storie fantasy dall'aspetto fiabesco e sognante delle precedenti iterazioni lasciano spazio a storie più umane e introspettive, pur non abbandonando mai l'estetica steampunk, l'architettura improbabile e le creature leggendarie che rappresentano il marchio di fabbrica del loro autore.

Poi purtroppo, avvenne il dramma.
Benoit Sokal, autore, designer e art director, morì nel bel mezzo dello sviluppo di The World Before, in seguito ad una lunga malattia con cui combatteva da tempo.

Senza di lui, Syberia non sarà più la stessa.
Invero, già da tempo si era percepito questo cambiamento, con un terzo capitolo che non aveva senso di esistere, forzato nella sua storia, terribile a livello tecnico, banale a livello ludico e senza il guizzo creativo dell'artista.
Syberia TWB inverte un po' la tendenza, innovando il sistema di progressione e dando nuova linfa vitale alla saga. Per tutto il tempo di gioco si respira a pieni polmoni la volontà di tornare ai fasti di un tempo, grazie a delle idee nuove e intriganti... che purtroppo non sono state sviluppate nel migliore dei modi. TWB contiene numerose occasioni d'oro malamente sfruttate, che lo avrebbero potuto rendere più apprezzato da pubblico e critica. Si percepisce chiaramente che qualcosa è andato storto durante le fasi finali dello sviluppo e sicuramente il nefasto cambio di direzione non ha aiutato.

Tecnicamente il gioco è arretrato, i movimenti sono legnosi, gli enigmi sono stati ridotti all'osso, tutti estremamente facili, la trama possiede delle forzature fastidiose e un certo personaggio importante è stato reso una mera macchietta comica... però non si tratta di un brutto gioco.
Vaghen è una città meravigliosa, in cui è d'obbligo perdersi ore intere per osservarne la composizione artistica, le architetture fantasiose, le riserve naturali maestose, i giochi di luce evocativi e, perché no, godersi anche i rilassanti suoni ambientali e una colonna sonora delle grandi occasioni, composta dal fedele Inon Zur.
Inoltre, al netto di qualche sporcatura di sceneggiatura, la storia è realmente avvincente, con qualche piccolo colpo di scena capace di aumentarne il phatos.
Forse questo è uno di quei casi in cui un film avrebbe potuto trasporre meglio l'immaginazione di Sokal. Magari la serie animata, recentemente annunciata, renderà ciò possibile.

Passiamo ora al capitolo fanservice. No, non parlo di QUEL fanservice, che è comunque presente in alcune inquadrature, ma di uno più personale.
Syberia: The World Before è COSTELLATO di citazioni al primo glorioso capitolo della saga (addirittura ci sono più collegamenti con esso rispetto a Syberia 3). Non solo la città in cui è ambientata gran parte della storia è molto simile alla Valadiléne del 2002, ma la presenza di Hans Voralberg si nota a più riprese, sia nel passato con Dana Roze sia nel presente con Kate Walker, e sarà proprio Kate che nel commentare citerà ogni tre per due le sue avventure vissute tra Barrockstadt, Komkolzgrad, Aralbad, la stessa Valadiléne... inoltre, ad un certo punto, ci verrà affidato un compito che sarà IDENTICO a quello di un livello del primo Syberia.
Tutto questo solo a livello microscopico, ma se volessimo parlare più in generale possiamo osservare come la missione principale della protagonista, ossia rintracciare una giovane ragazza scomparsa tanti anni prima, è analoga a quella di rintracciare il "latitante" Hans Voralberg creduto defunto, del primo capitolo; la stessa similitudine intercorre anche tra i finali dei due giochi, entrambi molto aperti a seguiti.
E qui torna il discorso iniziale.
Syberia: TWB non è Syberia 4, poiché pare che tutto il gioco sia stato costruito in funzione del suo finale e di un suo possibile sequel, il vero quarto capitolo della saga.

Purtroppo però, Microids ha affermato che un Syberia 4 non è attualmente nei piani del team, che tuttavia non esclude eventuali dlc o espansioni... chi vuole intendere intenda.

Syberia: The World Before non è affatto un gioco brutto, anzi, è una ventata di aria fresca per una saga che sembrava stesse colando a picco. Un sollievo per i fan e una piacevole avventura per i neofiti.
Certo, le texture poco definite, i cali ingiustificati di frame e le animazioni rimaste bloccate all'epoca PS2 possono spaventare la maggior parte dei giocatori, ma non mi sento di sconsigliarglielo, poiché si tratta di un'ottima occasione per avvicinarsi ad una serie storica, che trova nei primi due capitoli gli ultimi baluardi dei classici punta e clicca, oggi quasi estinti.

E quando ci giocheranno, spero non si scordino di dedicare un momento della loro giornata alla memoria di Benoit Sokal, padre di Syberia, grande artista, uomo curioso ed eterno sognatore malinconico.



In questo caso, più che "Broken Age" si dovrebbe parlare di un "Broken Game". Mi spiego meglio.

Uscito inizialmente nel 2014 in seguito ad una campagna di raccolta fondi su Kickstarter e affini, Broken Age si presenta come la nuova creatura di Tim Schafer, storico autore e sceneggiatore di colonne portanti dei punta e clicca quali Monkey Island e Grim Fandango, oltre che direttore artistico degli Psychonauts, dai quali si può notare un'affinità nel character design.
All'epoca fece molto notizia la suddivisione del gioco in due parti, in quanto sembra che i progetti in corso di sviluppo sarebbero diventati così tanto ambiziosi da far terminare anzitempo tutto il milionario budget accumulato. Ahimè, tutta questa ambizione si è dovuta contenere parecchio e il prodotto finale, specialmente la seconda parte, non riesce a fare il salto di qualità prospettato.

In questa avventura grafica dai forti toni comici e, talvolta, grotteschi, in pieno stile Tim Schafer, avremo la peculiare possibilità di scegliere in qualsiasi momento uno tra due personaggi giocabili, ognuno con una propria storia e un proprio setting. Per quanto, inizialmente, entrambe le vicende paressero molto interessanti, ho trovato quella di Vella, la ribelle fornaia designata come vittima sacrificale, più affascinante e meno monotona della sua controparte "spaziale" e, in generale, per tutto il resto dell'avventura, questa iniziale sensazione è stata pienamente confermata. Anche a livello di enigmi si percepisce un netto sbilanciamento verso quest'ultima, lasciando così al giovane Shay, l'altro personaggio giocabile, le parti più noiose.
Inoltre, a tal proposito, tocca parlare del tasto più dolente di questo gioco: la difficoltà generale. Al netto di qualche elemento interessante e ben congegnato, gli enigmi di Broken Age sono banali, eccessivamente lineari e neanche molto ispirati. Solamente verso la fine si potrà ottenere un innalzamento della complessità dei ragionamenti da compiere, sebbene la magia non duri molto; volenti o nolenti, in caso di fallimenti, il gioco stesso si lascerà andare a suggerimenti invasivi e non richiesti, talvolta teletrasportandoti vicino alla soluzione e piazzandoti, davanti alla faccia, un foglio di carta con ulteriori indizi sul mistero da risolvere. Insomma, capisco voler rendere l'esperienza accessibile ai più, ma a tutto c'è un limite, soprattutto se l'aiuto non è affatto richiesto.
Sempre rimanendo in tema, trovo un peccato che non si sia sfruttato appieno il "collegamento" tra i due personaggi giocabili, che non interagiscono praticamente mai tra di loro, precludendo in tal modo la possibilità di sviluppare molti più enigmi intrecciati, che trovano cioè la soluzione in seguito ad uno scambio di oggetti o azioni coordinate, che sarebbero potuti essere il punto cardine di questa nuova esperienza.
Apprezzo inoltre che si sia voluto creare una mappa di gioco composta da molti scenari differenti, ma il dover ricorrere costantemente a lunghe passeggiate di backtracking (con dei fastidiosi caricamenti - non istantanei - di 10 secondi) per sperimentare la combinazione di oggetti o cercare nuovi dialoghi, risulta leggermente fastidioso e snervante.

Se da un lato il gameplay risulta al di sotto delle aspettative, ciò che sorprende è il reparto artistico. L'art design è semplicemente delizioso, disegnato tutto a mano con uno stile caratteristico, simile ad altre produzioni Double Fine quali Psychonauts o Grim Fandango. Ogni personaggio e ogni luogo rimarranno a lungo impressi nella propria mente, nulla darà mai la sensazione di ripetitività (artisticamente parlando) e, talvolta, il giocatore non potrà che rimanere sorpreso da certe scelte stilistiche che fanno l'occhiolino anche ad altri generi più "cupi".
A rafforzare queste buone sensazioni ci pensa la sontuosa sceneggiatura, la vera star indiscussa del gioco, motore trainante di un'esperienza che altrimenti sarebbe stata messa in disparte anzitempo. Ogni dialogo di ogni personaggio in ogni situazione risulta affascinante, comico e, al tempo stesso, memorabile. Non esisteranno NPC fastidiosi o dimenticabili, ognuno possiede una propria eccentrica personalità, dagli antagonisti fino agli oggetti di scena parlanti (l'albero il mio personale picco assoluto)... ci si potrebbe stare ore ed ore a dialogare senza stancarsi! Esistono anche molti dialoghi nascosti, attivabili tramite combinazioni assurde di oggetti con elementi dello sfondo o con gli stessi personaggi, tutti molto simpatici.
Tutto questo è stato reso possibile anche da un cast di doppiatori d'eccezione, che vede tra le voci principali Elijah Wood, Jack Black e Jennifer Hale.
Come accennato in precedenza, sempre interessante, ma non ai livelli della sceneggiatura, è la trama, che parte in quarta mostrando situazioni al limite dell'horror, in cui i protagonisti vivono vere e proprie distopie dittatoriali, uguali ma opposte, per poi venire tutto annacquato a causa del travagliato e approssimativo sviluppo finale dell'opera. Apprezzabile il colpo di scena che separa i due atti della storia, che stravolge completamente il punto di vista del giocatore sugli eventi narrati fino a quel momento, nonostante ci fossero indizi per capirlo in anticipo.

Giocare a Broken Age nel 2024, nella sua versione completa, ha sicuramente influito nel giudizio apportato al titolo di Double Fine. Non ho vissuto sulla mia pelle l'attesa annuale per scoprire come sarebbe continuato e quindi non mi sono creato particolari aspettative tra un capitolo e l'altro, ma posso comprendere la delusione di molti nel ritrovarsi un'intera nuova sezione di gioco senza tuttavia nuove mappe, ma solo rivisitazioni - comunque interessanti - delle precedenti. Dieci anni fa forse gli avrei dato un'insufficienza, perché è vero che si tratta di un gioco che sotto certi aspetti nasce vecchio e poco ispirato, nonostante la mente geniale dietro di esso, ma è anche vero che sa come catturare il giocatore con il suo charme e sa come farsi amare per i suoi personaggi e per l'atmosfera accogliente.
Non è un gioco che consiglierei a molti, ma sarebbe un peccato farlo cadere nel dimenticatoio.

Piacevole indie esplorativo, con atmosfere e asset riconducibili al celebre Animal Crossing. "Riconducibili" per non dire "totalmente copiati", ma dettagli.

In questa breve avventura impersonificheremo una giovane uccellina, il cui obiettivo è quello di scalare la grande montagna che troneggia al centro dell'isola nella quale si è fermata con la zia in villeggiatura.
All'interno di questo bucolico microcosmo, possiamo trovare un sacco di altri animaletti con i quali interagire, ognuno avente una propria eccentrica personalità, e dai quali avviare quest secondarie che avranno come ricompensa degli oggetti che ci aiuteranno durante la nostra "short hike".

Come suggerisce il titolo, in un paio d'ore potremmo giungere ai titoli di coda e proprio in questo risiede il valore di A Short Hike, ossia nella sua essenza di "gioco antistress", grazie al quale potersi rilassare senza pressioni, nè pretese.

Sì, è vero, è una tech demo... ma non solo! In primis è un videogioco e come tale va valutato.

Astro's Playroom tecnicamente è un action platform in 3D, tuttavia la sua raison d'être risiede nella forma di un museo interattivo della storia di Sony Playstation, dal 1994 ad oggi. Disseminati dietro ogni anfratto, ci saranno citazioni più o meno velate alle storiche esclusive che hanno reso popolare questa piattaforma di gioco, da Metal Gear Solid a The Last of Us e così via.
Sebbene il livello di sfida sia estremamente semplice, alla portata di chiunque, la breve esperienza di gioco non mancherà talvolta di apportare variazioni sul tema, tramite minigiochi, artefatti da collezionare (le periferiche brandizzate Sony) e modifiche dei comandi, in modo da sfruttare appieno le potenzialità del nuovo controller.

Nonostante si stia parlando di un gioco "free to play", senza microtransazioni o ricavi esterni, nelle quattro/cinque ore di gioco si riesce a percepire tutto l'amore e la passione del talentuoso "Team Asobi" verso il medium videoludico, specialmente quello che orbita attorno al colosso nipponico, che per molti di noi è stato negli anni fonte di ore ed ore di intrattenimento, scoperte e crescita personale.

Se questo è il benvenuto alla next (current) gen, mi sento già più che accolto!

Breve avventura narrativa in prima persona di stampo sci-fi, da giocarsi tranquillamente in una giornata.

Poco da dire, si tratta di un "Walking simulator" dalle minime interazioni che vuole veicolare un proprio messaggio filosofico attraverso gli scambi di battute tra la protagonista, un'archeologa spaziale di nome Adie, e varie IA che conoscerà durante il suo viaggio.
Sebbene sia evidente che Return to Grace sia stato costruito in funzione della trama (o meglio, del finale), e non il contrario, la progressione rilassata, i dialoghi apprezzabili e qualche scelta da compiere, renderanno l'intera esperienza piuttosto piacevole, a differenza di altri titoli simili.

Non sarà il miglior esponente del suo genere, date alcune scelte antiquate nell'esplorazione e dato un reparto artistico non molto ispirato, ma si tratta pur sempre di una piccola storia interattiva che saprà intrattenere il giocatore per 4/5 ore, facendolo anche riflettere, in ultimo, sulla natura paradossale dell'essere umano.

Oggettivamente però, per quello che Return to Grace offre, 15 euro sono troppi. Se proprio volete recuperarlo, consiglio di farlo tramite offerte o abbonamenti.