Piacevole indie esplorativo, con atmosfere e asset riconducibili al celebre Animal Crossing. "Riconducibili" per non dire "totalmente copiati", ma dettagli.

In questa breve avventura impersonificheremo una giovane uccellina, il cui obiettivo è quello di scalare la grande montagna che troneggia al centro dell'isola nella quale si è fermata con la zia in villeggiatura.
All'interno di questo bucolico microcosmo, possiamo trovare un sacco di altri animaletti con i quali interagire, ognuno avente una propria eccentrica personalità, e dai quali avviare quest secondarie che avranno come ricompensa degli oggetti che ci aiuteranno durante la nostra "short hike".

Come suggerisce il titolo, in un paio d'ore potremmo giungere ai titoli di coda e proprio in questo risiede il valore di A Short Hike, ossia nella sua essenza di "gioco antistress", grazie al quale potersi rilassare senza pressioni, nè pretese.

Sì, è vero, è una tech demo... ma non solo! In primis è un videogioco e come tale va valutato.

Astro's Playroom tecnicamente è un action platform in 3D, tuttavia la sua raison d'être risiede nella forma di un museo interattivo della storia di Sony Playstation, dal 1994 ad oggi. Disseminati dietro ogni anfratto, ci saranno citazioni più o meno velate alle storiche esclusive che hanno reso popolare questa piattaforma di gioco, da Metal Gear Solid a The Last of Us e così via.
Sebbene il livello di sfida sia estremamente semplice, alla portata di chiunque, la breve esperienza di gioco non mancherà talvolta di apportare variazioni sul tema, tramite minigiochi, artefatti da collezionare (le periferiche brandizzate Sony) e modifiche dei comandi, in modo da sfruttare appieno le potenzialità del nuovo controller.

Nonostante si stia parlando di un gioco "free to play", senza microtransazioni o ricavi esterni, nelle quattro/cinque ore di gioco si riesce a percepire tutto l'amore e la passione del talentuoso "Team Asobi" verso il medium videoludico, specialmente quello che orbita attorno al colosso nipponico, che per molti di noi è stato negli anni fonte di ore ed ore di intrattenimento, scoperte e crescita personale.

Se questo è il benvenuto alla next (current) gen, mi sento già più che accolto!

Breve avventura narrativa in prima persona di stampo sci-fi, da giocarsi tranquillamente in una giornata.

Poco da dire, si tratta di un "Walking simulator" dalle minime interazioni che vuole veicolare un proprio messaggio filosofico attraverso gli scambi di battute tra la protagonista, un'archeologa spaziale di nome Adie, e varie IA che conoscerà durante il suo viaggio.
Sebbene sia evidente che Return to Grace sia stato costruito in funzione della trama (o meglio, del finale), e non il contrario, la progressione rilassata, i dialoghi apprezzabili e qualche scelta da compiere, renderanno l'intera esperienza piuttosto piacevole, a differenza di altri titoli simili.

Non sarà il miglior esponente del suo genere, date alcune scelte antiquate nell'esplorazione e dato un reparto artistico non molto ispirato, ma si tratta pur sempre di una piccola storia interattiva che saprà intrattenere il giocatore per 4/5 ore, facendolo anche riflettere, in ultimo, sulla natura paradossale dell'essere umano.

Oggettivamente però, per quello che Return to Grace offre, 15 euro sono troppi. Se proprio volete recuperarlo, consiglio di farlo tramite offerte o abbonamenti.

Paura. Morte. Depressione. Accettazione.
Questi i temi cardini di un'opera storicamente importantissima per il genere JRPG, che ha dato i natali ad una delle poche saghe spin-off capaci di reggersi sui propri piedi e, addirittura, di superare le proprie origini: "Persona 3".

Ma in questa sede non si parlerà di ciò, bensì di un remake... in quanto remake: "Persona 3 RELOAD".

Pur senza il diretto coinvolgimento della mente innovatrice del brand, Katsura Hashino, i ragazzi di Atlus sono riusciti nell'arduo compito di creare un'opera capace di reggere l'inevitabile paragone con il leggendario Persona 5.
Persona 3 Reload ha il raro merito di accontentare tutti: il remake rimane molto fedele alla versione originale, ma al tempo stesso riesce a svecchiare alcuni aspetti di gameplay e a rinnovare il comparto tecnico/artistico. Chiunque sia il giocatore, un fan di vecchia data o un neofita della serie, non può che rimanerne soddisfatto.
Come detto in precedenza, qui non si parlerà di trama, pregi e difetti tipici del gioco originale, bensì delle novità o mancate opportunità di Reload.
Innanzitutto, il sistema di combattimento, che è rimasto con le stesse "tipologie" di attacchi fisici ed elementali di P3, viene approfondito con l'aggiunta di nuove abilità passive per ogni personaggio, sbloccabili con l'avanzare dei rispettivi social link, e con la meccanica della "teurgia", ossia delle "ultimate" dagli effetti variabili, sbloccabili con l'avanzare della storia. Se da un lato la Teurgia abbassa notevolmente il livello di sfida, dall'altro lato amplifica la varietà dei combattimenti, rendendoli più divertenti ed emozionanti.
Interessante anche la possibilità, per il protagonista, di sbloccare nuove Teurgie con la fusione di nuove Personae tematicamente collegate tra di loro, meccanica che stimola il giocatore a sperimentare la fusione nei modi più creativi.
Un grande miglioramento della quality of life lo troviamo anche nella gestione delle quest secondarie, che non saranno più esclusivamente approcciabili di giorno (i social link), ma potranno essere sviluppate anche di notte grazie a nuovi dialoghi e a nuove attività che ci permetteranno di conoscere meglio i nostri alleati e far sviluppare loro nuove abilità. Insomma, non ci saranno mai tempi morti.
I miglioramenti non sono stati apportati solo al gameplay, ma anche alla grafica. Sviluppato da zero in Unreal Engine 5, Persona 3 Reload si presenta magnificamente alla vista, con animazioni fluide e un HUD eccentrico, erede dello stilema anticonvenzionale lanciato da Persona 5, di cui però non copia l'aspetto fumettoso e ribelle in funzione di un più introspettivo tema "marino".
Sfortunatamente ciò non è esente da criticità: sebbene i filmati pre-renderizzati siano di una qualità altissima, forse persino superiore a P5, alcune animazioni "in game" risultano goffe e spezzano il mood del momento. Oltre a quello, i filmati in 2D non reggono il paragone con quelli in 3D: risultano vecchi e mediocremente animati, e la loro scarsa presenza durante le oltre 70 ore di gioco fanno pensare che forse se ne poteva fare a meno. E poi alcune transizioni, specialmente quelle temporali, risultano creativamente pigre e stonano con il resto dell'opera.
L'aspetto che invece non presenta errori è il reparto sonoro: ogni traccia musicale presente nel gioco originale, anche quelle storiche, è stata rielaborata in maniera eccelsa e in linea con lo spirito di questo remake: fedele all'originale, ma rinnovato brillantemente. In sostanza, non si può non rimanere ammaliati dalle musiche di Reload, che sapranno ricavarsi un grande spazio nel nostro cuore. In questo caso, il genere di riferimento è il rap, ma non mancheranno anche brani più introspettivi e dal tono classicista.
Anche il doppiaggio come sempre è entusiasmante, con la maggior parte del cast originale di doppiatori... anche se alcune voci sono un po' troppo mature per l'età del proprio personaggio. Ma si parla di dettagli sorvolabili.

Persona 3 Reload è uno dei migliori remake mai creati e anche la versione definitiva per chi volesse recuperarsi il capitolo più rivoluzionario della saga spin-off di Shin Megami Tensei.
Certo, forse ci metterà un po' a carburare e certe scelte narrative risulteranno un po' ingenue, figlie dei propri tempi, ma l'atmosfera e il fascino di un JRPG a tutto tondo che fa luce sugli aspetti più problematici, talvolta dimenticati dagli adulti, della vita da adolescenti in un mondo corrotto, vale la pena di aspettare tutto il tempo necessario affinché l'esperienza possa sbocciare prorompentemente.
Giocateci.

"The Arcana is the means by which all is revealed..."

Negli ultimi anni, il giocatore medio, per potersi godere appieno l'esperienza di gioco, ha a disposizione (e pretende) varie attività da svolgere durante la sua avventura, tra cui esplorare, nuotare, combattere, arrampicarsi... molte delle quali rimangono sul superficiale e sul funzionale.
Jusant decide di fare l'opposto: prende una di quelle attività, come la scalata, e ci costruisce attorno un game design quasi simulativo.

Nulla di troppo complesso, sia chiaro, ma il grande merito del team di Don't Nod risiede nell'aver creato un gameplay estremamente piacevole, che non stanca mai. Anzi, arrivati alla fine di ogni capitolo ci si troverà a sperare con tutto il cuore che il gioco continui e ci siano altre pareti da scalare. Purtroppo così non sarà per sempre.
Oltre al gameplay core, assolutamente degno di nota è il comparto sonoro, curato sotto ogni aspetto ed estremamente immersivo, grazie anche ad una colonna sonora pulita ed emozionante.
Sicuramente anche lato artistico questo gioco si fa valere, il design dei due protagonisti è stupendo e le animazioni sembrano provenire da un film Pixar, ma personalmente ho notato una certa stanchezza creativa nella proposizione di alcuni elementi scenografici già visti e rivisti in molte altre opere di questo tipo, in particolare Outer Wilds. Discorso simile può essere fatto per la sceneggiatura che, essendo Jusant è un gioco silenzioso, si configura nelle lettere o pagine di diario che troveremo durante la nostra scalata; l'intento originale sarebbe stato quello di far conoscere al giocatore i drammi degli abitanti di un antico "villaggio verticale" (che al nostro passaggio pare desertico) alle prese con il disastro di una grave siccità, che ha portato al prosciugamento dell'oceano (lo jusant) e al graduale esaurimento di ogni scorta di acqua potabile. I presupposti per parlare dei problemi socio-economici di una civiltà che sta lentamente morendo di disidratazione c'erano tutti, ma ciò che abbiamo ottenuto sono stati dei botta e risposta del tutto tranquilli di persone che parlano più dei loro problemi privati e di vita quotidiana che di altro, come se il contesto quasi post-apocalittico fosse normale, con poche eccezioni collocate negli ultimi momenti di gioco. Si è andato così a creare un racconto meno incisivo e meno originale, forse appositamente per rendere il gioco adatto anche ai più piccoli... e questo è un peccato.
Come accennato in precedenza, sempre a proposito di questo "adattamento", la scalata sarà sì piacevole e approfondita nei comandi, ma mai veramente complicata, anche nelle sezioni di gioco che propongono piccoli "malus" al giocatore. Ciò non influisce molto sull'esperienza complessiva, ma ne abbassa un po' il valore ludico.

Al netto di ogni difetto che può avere questo gioco, Jusant è una perla indie che non va assolutamente lasciata sfuggire, capace di donare una decina di ore di divertimento in totale relax. Possiede pure una discreta rigiocabilità, quindi, in ogni caso, non sarà un investimento perso.

Chants of Sennaar è un'opera artistica dal forte impatto socio-politico, capace di abbattere barriere all'apparenza insormontabili per diffondere il proprio messaggio nelle stanze di ciascuno di noi, indipendentemente dalle proprie origini e indipendentemente dalla proprie epoche storiche.

In un mondo simboleggiato da una enorme torre a più livelli svettante in un contesto desertico, di cui al nostro risveglio non sappiamo nulla, il nostro obiettivo diviene ben presto quello di raggiungere la vetta, nella speranza di scoprire le nostre origini e il nostro scopo. Nulla di specale, pare, ma c'è solo un grosso problema in tutto ciò: non sappiamo parlare, nè leggere, nè scrivere. Tutte le persone che incontreremo durante l'avventura, avranno un proprio linguaggio scritto in un proprio alfabeto, sempre diverso man mano che si sale; saremo dunque noi giocatori a dover tradurre parola per parola, osservando e ascoltando le loro abitudini.
Questa meccanica, che alla lontana ricorda "Return of the Obra Dinn", è ciò che rende unico CoS. Grazie all'abbondanza di situazioni diverse e all'attenzione per i dettagli disseminati nei vari livelli, risulterà piacevole ed appagante svolgere un lavoro che, all'apparenza, potrebbe risultare noioso per i più. Di avventure punta e clicca ne escono sempre meno oggigiorno, ma i ragazzi di Rundisc hanno avuto il coraggio di riproporne una ritoccando e modernizzando alcuni aspetti, tra cui l'aggiunta di alcune fasi stealth, purtroppo non troppo approfondite.
La logica dietro alla costruzione di ogni tipo di scrittura è molto acuta, tanto da far sembrare che dietro ci sia stato un lavoro svolto da filologi esperti.
Esteticamente il gioco è meraviglioso, le texture sono minimali ma dai colori vivaci e differenti a seconda della popolazione che abita la zona di turno. Le animazioni sono ottime, rifinite nel dettaglio per far comprendere al giocatore, senza lasciare dubbi, l'azione compiuta dall'npc e aiutarlo nella decifrazione dell'alfabeto. Certo, esiste qualche eccezione non molto elegante, ma si tratta di casi unici.
Chants of Sennaar possiede il merito di unire due linguaggi artistici nel migliore dei modi, ossia l'espressività del cinema con l'interattività del videogioco, dando vita ad un'opera che punta a sublimare i due media.
Si potrebbe parlare di un capolavoro... se solo non fosse così facile!
Sebbene all'inizio ci si trovi disorientati dinanzi al nuovo tipo di gameplay, nucleo dell'intera esperienza, una volta padroneggiate le meccaniche di base e imparato alcuni trucchetti, il giocatore riuscirà ad avanzare per inerzia; tradurre glifi diverrà sempre più semplice e a volte non ce ne sarà manco bisogno, in quanto il gioco lo farà (quasi) in automatico. Sono consapevole che creare tanti linguaggi autonomi e a sè originali sia molto complesso, ma sarà impossibile non notare una certa pigrizia nel riproporre costantemente determinati schemi logici nei puzzle. Inoltre, come accennato in precedenza, le fasi stealth risultano superficiali e le IA dei nemici non all'altezza del resto del gioco. Peccato, si è persa un'occasione per creare qualcosa di veramente importante.

Al di là di ogni criticità, Chants of Sennaar è una perla indie che va assolutamente giocata, perché saprà dare emozioni uniche e far riflettere il giocatore su diversi aspetti della sua quotidianità e non solo, tramite un innovativo gameplay che tenta di rinvigorire un genere ormai appassito.
Che sia un'allegoria del mondo umano nella sua totalità o una denuncia più specifica, mirata all'industria videoludica chiusa in fazioni e prossima alla crisi collettiva, lo scopo di questo titolo è la creazione non di ponti, ma di scale, le armi più efficienti per combattere i freddi muri grigi.

Un indie horror in prima persona come tanti, privo di originalità, sorretto esclusivamente dal reparto grafico-artistico e dal contesto simil-Bioshock, con Tesla al posto di Ryan e così via.
Sarò breve, come lo è il gioco in questione.
Trama inconcludente, gameplay minimalista e privo di attrattiva (ci sono walking simulator più originali) e personaggi scialbi e prevedibili. Sembra quasi che sia stata tutta una tech-demo, piuttosto che un videogioco vero e proprio.
Pessima, antiquata - e un po' furbetta - la scelta di non includere i salvataggi automatici nei livelli, costringendo di fatto il giocatore a finire TUTTO il capitolo prima di poter salvare e chiudere il gioco. Piccoli espedienti per allungare il tempo di gioco, uniti al fatto che non si possano skippare le cutscene.

Magari alla sufficienza ci arriverebbe anche, ma ho deciso di non arrivare alle 3 stelle per spronare un team di sviluppo, italiano tra l'altro, che avrebbe le potenzialità per far di più, a puntare più in alto.


Non merita affatto cinque stelle, in realtà manco l'ho finito, ma ciò vale come "voto di protesta".
In futuro lo cambierò, però nel mio piccolo vorrei contribuire ad ampliare la popolarità di un gioco che, finalmente, abbia le carte in regola per spezzare il monopolio di un brand decadente e senza stimoli come quello di Pokémon.
Plagio? Perché, Pokémon non faceva lo stesso con i Digimon?
Le 8 milioni di copie vendute sono indice del fatto che i giocatori, E I FAN, di Pokémon si stiano iniziando a stufare del trattamento a loro riservato da TPCI e che desiderano nuove esperienze, più al passo coi tempi. O quantomeno giochi un minimo decenti e non solo per bambini.

Comunque sia, nonostante tutto, le prime impressioni sono positive. Si tratta di un tipico survival con elementi da monster collector. Una bella esperienza rilassante.

Gli esseri umani sanno essere persone tremende, come ci insegna Astalon... ma ancor più tremende sono le persone che commettono il mio stesso errore.

Ad una prima occhiata, "Astalon: Tears of the Earth" può facilmente venire scambiato per uno dei tanti indie in pixel art in circolazione, spesso "chimere" di generi videoludici e copie di altri titoli. In particolare, Astalon prende spunto dalle origini di alcune saghe storiche, tra cui Zelda, Metroid, Megaman e così via; da ciò ne consegue la "nascita" di un ignorante pregiudizio, il classico "giudicare (male) dalla copertina".
Quale errore! Quale tremendo errore!

Tears of the Earth si è rivelato essere un ottimo metroidvania con elementi da rouge-lite, andando contro a tutti quei preconcetti erronei che si erano andati a sviluppare nella mia mente. Pur rimanendo effettivamente un gioco concettualmente semplice, riesce nell'intento di far appassionare il giocatore con le sue meccaniche, divertenti e mai scontate.
Come accennato in precedenza, generalmente si tratta di un classico metroidvania 2D a scorrimento (più verticale che orizzontale), ma la novità risiede nel fatto che, per riuscire a proseguire nell'avventura, sarà necessario fare gioco di squadra e sfruttare sinergicamente ogni abilità di ciascuno dei tre eroi protagonisti: Kyuli è più agile e può fare un doppio salto a parete, Arias è uno spadaccino è può spezzare i tralicci, Algus usa la magia e può attivare interruttori a distanza. Dato che, almeno inizialmente, i tre personaggi possono venire switchati solamente nei checkpoint, il giocatore dovrà scegliere oculatamente con chi partire all'esplorazione, salvo poi sbloccare shortcut o scoprire strade alternative nascoste.
Il level design dell'intera mappa è degno delle più grandi produzioni, non solo per la coerenza in sè, ma anche per il fatto che sia stato concepito per essere perfettamente fruibile da tre personaggi differenti con abilità differenti. L'esplorazione, inoltre, non sarà mai fine a se stessa, dato che porterà sempre alla scoperta di power up utilissimi o nuove abilità, che permetteranno di esplorare ancora più a fondo.
L'unico neo in questo sistema riguarda la mappa, purtroppo poco intellegibile persino se potenziata, su cui non è possibile nemmeno prendere appunti o usare lo zoom, dimostrandosi così l'elemento più "old-style" del gioco.
Solitamente, giochi di questo tipo tendono a puntare molto sulla difficoltà crescente delle sezioni action, ma qui accade il contrario. Dopo una impattante difficoltà iniziale, Astalon diventa via via più semplice, concentrandosi maggiormente sulle sezioni platform.
Il richiamo estetico è palesemente quello dell'epoca a 16 bit, ma con delle rifiniture artistiche che rendono ogni singola stanza riconoscibile e pittoresca, ognuna con una storia da raccontare, tanto da fare invidia al buon Hidetaka Miyazaki. Carino anche il design dei personaggi, un po' chibi ma senza esagerare. A parte Kyuli. Non c'è alcun motivo affinché sia mezza nuda, but that's Japan.
Come accennato a inizio "recensione", la trama di questo gioco è semplicissima, così come il suo contesto; tuttavia, a colpire parecchio è la narrazione, che si sviluppa tramite dialoghi molto solenni e malinconici, oltre che attraverso una basica ma piacevole interazione tra i tre amici protagonisti.
Un plauso va fatto pure alla colonna sonora, che non mi pento di definire... grandiosa! Anch'essa, prevalentemente composta da tracce musicali malinconiche, senza però sdegnarsi di utilizzare brani più epici e accattivanti.

Che sorpresa Astalon! Non mi sarei mai aspettato che un gioco simile potesse rapirmi a tal punto. Peccato per le modalità extra, di post-game, non molto riuscite, altrimenti lo avrei sicuramente platinato. Giocatelo se ne avete l'opportunità, non fermatevi alla prima sciocca impressione, come stava per fare il sottoscritto.

Bloodstained è un progetto indie, nato dopo anni di gestazione e creato avendo come fonte di ispirazione principale il celebre: "Castlevania: Symphony of the night".

Al netto di una generosa profondità nella personalizzazione dell'esperienza, grazie ad una vastissima scelta di armi, magie ed equipaggiamento unici, e a diverse modalità aggiuntive - quali la randomizer e la possibilità di vivere l'avventura dal punto di vista di altri personaggi - questo titolo possiede parecchi difetti che ne abbassano il valore, in primis la resa grafica, parecchio negativa per essere un gioco del 2019, risultando antiquata pure per il platform di riferimento. I modelli dei personaggi sono approssimativi, non solo a livello creativo, ma anche dal punto di vista dei modelli poligonali di bassissima risoluzione. Gli elementi di sfondo, grazie al lavoro del solido Unreal Engine 4, sono pure apprezzabili, ma le animazioni dei personaggi appaiono legnosissime e ridicole, con l'effetto nefasto di andare a rovinare i momenti più seri che la, piuttosto scialba, storia ha da offrire.
Piccola nota positiva, il personaggio del tormentato spadaccino Zangetsu, che è interpretato dal buon David Hayter, perfetto per la parte.

Sicuramente, per gli amanti del genere, Bloodstained rappresenta un buon titolo, capace di ricordare nel gameplay un pilastro come SOTN, ma non mi sentirei di consigliarlo ad altre persone, per via della sua mancanza di freschezza e creatività, solitamente tipiche delle produzioni indipendenti.

Ammaliante, Carismatico e Divertente. Tre aggettivi che descrivono appieno l'hack'n'slash - o per meglio dire, lo "Stylish Action" - fuori di testa di Hideki Kamiya.

Se in Devil May Cry abbiamo avuto l'opportunità di giocare nei panni dell'affascinante cacciatore di demoni Dante, in questo titolo targato Platinum Games impersoneremo una strega demoniaca in guerra contro le schiere degli angeli.
Un capovolgimento di fronte che si riflette pure nel mood generale dell'opera, ora più comico e irriverente. Emblema di tutto ciò è l'iconica protagonista: Bayonetta, unica superstite di un antico clan di streghe che, risvegliatasi dopo 500 anni di sonno, vagherà in giro per il mondo alla ricerca della sua memoria perduta. A prima vista il suo design può essere per alcuni scambiato per sessista, ma una volta approfondito meglio l'argomento ci si ritrova davanti ad un personaggio stupendamente architettato, che non cede mai agli stereotipi del passato, sovvertendoli e abbattendoli, arrivando anche a sfidare qualche taboo tramite una comicità fatta di eccessi e assurdità, pur senza tralasciare momenti leggermente più seri. Lo stile di combattimento ne è un grande esempio, dato che le animazioni delle mosse saranno piccole coreografie nelle quali Bayonetta sfoggerà appieno tutto il suo fascino tramite passi di danza.
Al di là di ciò, la parte ludica di Bayonetta è solidissima in ogni suo punto, con una difficoltà che sale esponenzialmente verso il finale e un sacco di combo differenti, facili da eseguire e divertenti da usare. Gli unici lati negativi risiedono nell'esigua varietà dell'arsenale a nostra disposizione, nella telecamera (difficilmente manipolabile negli spazi stretti) e nella gestione di alcuni nemici minori, resi talmente aggressivi e pericolosi al punto da risultare più ostici del boss finale.
A livello grafico si tratta sicuramente di un buon prodotto, ma ciò che brilla maggiormente è l'estetica, il reparto artistico: dalle ambientazioni moderne a quelle medievali, dalle infernali alle celestiali, ogni singola mappa di questo gioco è una meraviglia per gli occhi e, come stelle nel cielo, ogni singolo nemico, dal più debole al più forte, è mitologicamente ben ispirato e concettualmente evocativo. A corredo di tutto ciò, la colonna sonora, che varia da reinterpretazioni di brani realmente esistenti, tra cui "Fly me to the moon" di Sinatra, a brani epici e sacrali, il tutto mantenendo coerenza con l'azione di gioco. Anche il doppiaggio non è male, molto apprezzabile il fatto che abbiano dato alla protagonista uno spiccato accento britannico.

Insomma, Bayonetta è un gioco che prosegue nella direzione Stylish-Action tanto amata da Kamiya e lo fa con sfrontatezza, senza mai risultare ridondante o pesante. Pure la trama, per quanto semplice, può essere apprezzabile e incuriosire il giocatore. Non è tuttavia un gioco per tutti, dato che la curva di difficoltà sarà molto ripida e, talvolta, ingiusta, oltre che per il fatto che la caratterizzazione della protagonista, se fraintesa, può risultare ad alcuni fastidiosa e invadente. Però fregatevene e giocateci, ne val la pena.

"Don't worry about quality. I've got quantity!"



Considerando che si tratta di un'opera fanmade, si può parlare di un buon lavoro.
Certo, su Portal 2 ci sono altre mod più approfondite e narrativamente interessanti, ma finché è gratis va benissimo anche così.
L'unica vera grande delusione riguarda il comparto sonoro: le nuove ost sono facilmente dimenticabili e i suoni ambientali, che giocano spesso con le meccaniche dei puzzle, sono poco creativi.
Invece, i due personaggi presentati sono doppiati molto bene, anche se tendono a riproporre linee di dialogo troppo simili, nel loro umorismo, a quelle degli originali Portal, senza apportare nulla di nuovo.
Ma alla fine, ciò che conta di più, in una mod di Portal, sono i puzzle, e qui devo dire che sono stati studiati con cura: oltre a mantenere un soddisfacente livello di difficoltà anche per i più esperti, vedono l'aggiunta di nuovi "pezzi del puzzle", ossia di nuove meccaniche per la risoluzione di enigmi, che non mi stupirei di ritrovare in un eventuale Portal 3.

Mod consigliata principalmente ai fan sfegatati di Portal, che tuttavia dovrebbero prenderla per quello che è, senza alcuna pretesa.

Se riuscite a leggere questo testo, o quantomeno a riprodurre i suoni nella vostra testa, significa che molto probabilmente condividiamo lo stesso dolore.
Anche se mi piacerebbe, e non sarebbe una pessima idea un giorno approfondire il discorso, io non riesco a comprendere il giapponese, non so leggere né riprodurre la loro complessa ed evocativa scrittura ad ideogrammi. In un mondo in cui tutto è "internazionalizzato", ovvero in cui esiste la versione inglese di ogni cosa, trovarsi davanti un'opera che testardamente non vuole saperne di uscire dal suo guscio nipponico ed aprirsi al mondo è avvilente.
Dopo l'entusiasmante esperienza di Earthbound, le mie alte aspettative per il suo "tardo sequel" si sono dovute scontrare con il fatto che l'unico modo di comprendere ed usufruire al meglio tale gioco sia l'utilizzo di una patch amatoriale che traduca il giapponese in una lingua a me intellegibile.
E così, dovendo abbandonare l'idea di poter giocare ad una versione ufficiale localizzata con la supervisione del suo (unico) scrittore e creatore, ho intrapreso il mio ultimo viaggio nella Mother saga.

Mother 3, sin dai primi istanti di gioco, si conferma un flusso di creatività e abilità tecnica incessante, capace di spremere fino all'ultimo byte l'hardware ristretto del Gameboy Advance per ottenere uno dei più complessi e profondi JRPG per la suddetta console portatile.
Nonostante nel 2006 il Nintendo DS fosse già stato reso pubblico e avesse riscosso un successo clamoroso da tempo, Mother 3 non ebbe altre release al di fuori del GBA e ciò fu una scelta particolare, anche dovuta al fatto che il gioco era ormai in sviluppo da 6/7 anni.
La pixel art, che in un certo senso ha un aspetto retrò in confronto al prequel su Snes, è semplicemente perfetta, curata nei minimi dettagli e mai ripetitiva: nel gioco saranno presenti un sacco di NPC, ma ognuno avrà un design proprio, con animazioni uniche e personalità differenti, conferendo così all'opera una certa artigianalità, richiamata anche dal logo e dal tema principale dell'opera. Da ogni singolo pezzo di questo mondo relativamente piccolo, ma vivo e vibrante, traspare tutta la cura e l'amore infusa in questo progetto da parte di persone che avevano come obiettivo principale quello di creare un bel videogioco, che toccasse in egual misura i cuori di fan e neofiti, lasciando in secondo piano il ritorno economico e le logiche di mercato.
Tutto questo è coerente con i temi principali di Mother 3, che girano attorno alla ricerca della propria felicità all'interno del problematico rapporto tra natura e artificialità, artigianalità e produzione in serie. Ad inizio gioco ci viene presentato un contesto quasi utopico, che pare il perfetto good ending di una vecchia storia già conclusa, come una fiaba senza tempo... tuttavia, in seguito ad un traumatico incidente, tutto ciò verrà messo in discussione, e tra i pacifici abitanti di Tazmily inizierà a serpeggiare il dubbio di una vita migliore diversa da quella.
Divisa in capitoli, la trama di Mother 3 diventa più romanzata rispetto al passato, con tanto di colpi di scena e momenti memorabili, ponendosi come la migliore della serie.
La divisione in capitoli, però, ha anche i suoi lati negativi, quantomeno in principio, dato che saranno diversi i cambi di prospettiva, i quali renderanno più difficoltosa l'immersione nella storia e frammenteranno l'esperienza di gameplay. A controbilanciare questo piccolo problema, che almeno personalmente ha reso più faticoso portare a termine il gioco rispetto a Earthbound, ci pensa la nuova aggiunta al combattimento rpg a turni: il ritmo. Grazie alla eccellente e variegata colonna sonora, quasi ogni nemico avrà la sua traccia personale e, se si premerà a tempo il tasto di attacco durante il nostro turno, seguendone il ritmo si potrà infliggere un danno aggiuntivo al nemico, per un massimo di 12 volte. Questa aggiunta non solo è utile per superare gli scontri più difficili, sebbene non sia obbligatoria a tal fine, ma è anche molto soddisfacente, perché i suoni dei colpi aggiuntivi si inseriscono perfettamente nella musica di sottofondo, creando sempre nuove melodie piacevolissime all'ascolto che valorizzano anche le lotte più lunghe o noiose.
Inutile dire, dunque, che il sound design in M3 è incredibile: non c'è mai una ripetizione di suoni o ost e tutte quelle che ci sono sono bellissime e memorabili, dall'inizio alla fine, oltre al fatto che ciò abbia un ruolo importantissimo e influente nel gameplay.
Nonostante, come scritto prima, nel gioco siano presenti momenti tragici e cupi, il mood generale dell'opera è prevalentemente comico, opera nella quale la vena satirica di Itoi rimane sempre l'elemento distintivo, sebbene sia leggermente meno brillante rispetto ai precedenti capitoli. Intendiamoci, all'interno di Mother 3 sono presenti diversi personaggi che rimarranno a lungo impressi nella mente, tutti estremamente diversi tra loro, in nome della tanto ricercata inclusività voluta dall'autore, ma talvolta si finisce per vivere un "deja-vù" del passato, andando così a perdere un po' di "potenza artistica".

In poche parole, Mother 3 riesce, dopo più di una quindicina d'anni, a mantenere alto lo standard di bellezza e creatività proprio di una delle migliori saghe RPG di Nintendo, purtroppo caduta un po' nel dimenticatoio. Forse non sarà brillante come Mother 2: Earthbound, ma rimane comunque un mezzo capolavoro, di cui mi auguro che presto facciano una remastered o che venga inserita nel catalogo del NSO, in modo tale che possa essere giocata, apprezzata e amata da molte più persone.
Farewell, dear Mother!

Earthbound, conosciuto anche come Mother 2, rappresenta l'eccellenza in ambito jrpg, un pilastro fondamentale del genere che ha ispirato un sacco di opere di successo.
Il suo predecessore, Mother, era sì un ottimo gioco ma con degli evidentissimi problemi strutturali e di level design, che inficiavano notevolmente l'esperienza; Earthbound si prende carico dell'eredità del prequel e lo migliora sotto ogni aspetto, pur lasciandone intatta l'anima, compiendo quasi un miracolo videoludico.
La base del combattimento a turni rimane pressoché invariata, con una nuova importante meccanica, la vita scalabile. I personaggi, infatti, non moriranno subito dopo aver subito un danno elevato, ma rimarranno liberi di agire finché la barra della propria vita (rappresentata come quella di un contachilometri) non sarà scesa a zero; in caso il nemico dovesse essere ucciso prima di quella eventualità, lo scalo degli HP sarà interrotto e il personaggio sopravvivrà. Questo aggiunge parecchia dinamicità e interattività negli scontri a turni, in quanto viene aggiunto nelle proprie strategie anche il fattore tempo.
Per il resto, la difficoltà di gioco si attesta su un livello mediamente facile, con giusto qualche difficoltà all'inizio e in un determinato punto che prevede la forzata assenza di un membro fondamentale del party, per poi semplificarsi di più con l'avanzata della storia. Sebbene questo possa scontentare gli hardcore gamer, d'altro canto rende Earthbound un gioco accessibile a chiunque, un perfetto entry-level per chi desiderasse avvicinarsi al genere.
La cosa, tuttavia, più sorprendente di questo meraviglioso jrpg è la narrazione, molto più profonda di quel che si possa pensare ad un primo sguardo superficiale. Earthbound è un gioco satirico, che usa il pretesto dell'avventura di un gruppo di ragazzini in un mondo di adulti per effettuare una denuncia sociale su larga scala del Giappone contemporaneo, affrontando temi quali il capitalismo sfrenato cresciuto sulle spalle dei cittadini, la prostituzione, l'opprimente mondo dello showbusiness, la brama incessante di sentirsi migliori del prossimo ad ogni costo, l'inquinamento etc.
Oltre a tutto ciò, mi ha molto colpito l'inserimento di un rapporto (non carnale, intendiamoci) omosessuale tra due ragazzini, fatto con una tale delicatezza e naturalezza da essere avanguardistico per un gioco degli anni 90. A memoria, un altro gioco che ha avuto il coraggio di proporre, in maniera più accentuata, un argomento simile (Rule of Rose) è poi stato pesantemente censurato in alcune zone del mondo, segno che all'epoca esisteva ancora un forte taboo a riguardo.
Al di là dei diversi messaggi sociali, pure la trama base del gioco è piacevole, sebbene priva di veri e propri colpi di scena, arrivando però al culmine nello scontro con il boss finale, indimenticabile e iconico nella sua brutalità visiva e concettuale.
Tutti i personaggi di Earthbound sono scritti bene, spesso strumenti di satira come accennato prima, ma vorrei soffermarmi un secondo sul vero antagonista principale, colui che ci metterà sempre i bastoni tra le ruote; nonostante parta come il tipico goffo e stereotipato bulletto di quartiere, il suo personaggio assumerà una personalità ben più solida con l'avanzare del tempo, acquisendo astuzia e creando strategie sempre più complesse, fino ad arrivare a manipolare lui stesso il male assoluto, trascendendo tempo e spazio, e ce lo troveremo alla resa dei conti con una consapevolezza della realtà estremamente lucida, nella sua follia degenerativa. Un character development atipico, ma interessante.

Earthbound non solo è un buon jrpg, ma, come già accennato, è un'esperienza memorabile per qualsiasi tipo di giocatore, che non annoia mai anche grazie ai suoi continui cambiamenti di prospettiva e alla grande varietà di livelli unici volti a spezzare una eventuale monotonia di gioco.
L'unico vero difetto rimane la macchinosità delle interazioni e della navigazione nei menù. E forse si pecca anche di una mancanza di ost realmente memorabili.
Ma si tratta di briciole, rispetto alla grandezza di un titolo del genere. Tutti obbligati a giocarlo.

Mother, conosciuto anche con il nome di Earthbound Beginnings, è un jrpg di grande rilevanza storica e fonte di ispirazione per tantissimi giochi, dal 1989 ad oggi; titoli recentissimi come Undertale e Omori, infatti, presentano diverse analogie, principalmente nello stile dei nemici e dei dialoghi.
A sua volta, Mother si ispira ai due grandi neonati colossi del genere ruolistico orientale, ovvero Final Fantasy e Dragon Quest, reinterpretandoli in chiave più umoristica e contemporanea. Al posto di partire all'avventura per salvare principi e principesse di castelli medievali, il protagonista sarà un normale ragazzetto americano che, armato della sua fidata mazza da baseball, andrà in giro per la nazione al fine di comprendere il motivo dietro agli eventi paranormali che stanno mettendo in pericolo il mondo intero. Detta così può sembrare una storia banale... e a larghi tratti lo è... salvo poi subire un'impennata di eventi ed emozioni verso gli ultimi minuti di gioco. Quel che pare un gioco per bambini in realtà nasconde ben altro, tanto da far parlar di sè ancora oggi. Persino la colonna sonora risulta sorprendente, essendo composta da tracce orecchiabili e piacevoli anche in seguito ad un ripetuto ascolto continuativo, oltre al fatto che esistono ost variabili a seconda del contesto in cui ci si trova.
Veniamo ora al vero nucleo di Mother: il gameplay. Al di là del design bizzarro dei nemici, perlopiù persone, animali o oggetti di vita quotidiana impossessati da un'entità malvagia, la componente ruolistica è piuttosto solida e leggermente innovativa in certi frangenti, come lo scalo recuperabile degli hp ad ogni danno subito. Il vero grande problema di questo gioco sta nella sua mappa: enorme, troppo grande e tutta identica a sè nelle inquadrature. La vera sfida non è quella di sconfiggere nemici potenti, ma quella di orientarsi nelle immense ambientazioni. Da un lato capisco l'intenzione di creare un arcaico contesto open-world in stile Breath of the Wild, ma qui si è esagerato nelle misure: la distanza tra una città e l'altra è paragonabile a quella che esisterebbe nel mondo reale e il tempo di attraversata pure; in più non c'è modo di velocizzare il passo, rendendo così il backtracking oltremodo tedioso (quantomeno fino all'ottenimento del, nascostissimo, potere del teletrasporto).

Mother è una pietra miliare del videogioco, capace di essere al contempo vecchio e giovane, fastidioso e divertente, banale ed emozionante.
Di certo non è affatto un retrogame per tutti, pensateci due volte prima di spendere tempo e soldi per metterci sopra le mani... ma se sarete abbastanza coraggiosi, alla fin fine ne uscirete soddisfatti.