2022

Non mi sarei aspettato nulla di meno da un gioco che sin dai primi trailer mi aveva stregato. Ho dovuto aspettare due anni prima di metterci le mani sopra, ma l'eterna e indissolubile pazienza mi ha temprato mente e spirito, preparandomi così alla battaglia senza fine di Sifu.

Sebbene possa apparire come un gioco semplice, con poche combo e nemici simili tra loro, Sifu riesce a sorprendere il giocatore con un gameplay fluido e appagante; stendere chiunque si ponga davanti a noi, uno dopo l'altro in un vortice di schivate, parate e contrattacchi alternati nel giusto tempismo, diventerà un guilty pleasure, grazie al quale sarà possibile, anche solo per una breve sessione di gioco, sentirsi estremamente potenti. Una droga senza effetti collaterali, in pratica.
Grazie alle ultime patch, sarà possibile scegliere con quale difficoltà approcciarsi al gioco: facile, originale o hardcore. Scegliendo l'opzione media, si potrà vivere il gioco così come era stato pensato inizialmente, ovvero con una curva di difficoltà molto ripida all'inizio, ma che, una volta padroneggiati certi meccanismi, col tempo diverrà quasi piatta; ciò significa che l'arduo impatto iniziale servirà da "terapia d'urto" per indirizzare il giocatore verso un'esperienza action il meno frustrante possibile, pur non scendendo a compromessi con la difficoltà generale.
Ciò che diversifica questo "beat 'em up" rispetto alla concorrenza è senza dubbio la meccanica dell'invecchiamento: in caso di morte potrai tornare in vita, ma con un'età avanzata; si parte a 20 anni e si otterrà un "game over" una volta sconfitti dopo aver superato i 70. Inizialmente potrebbero sembrare tantissimi 50 anni, ma per terminare la main quest sarà necessario svolgere tutti i livelli senza poter ringiovanire ulteriormente, salvo cancellare i progressi di una determinata zona, e ben presto ci si renderà conto che 50 "tentativi" sono esigui. Questa meccanica serve da deterrente: per poter padroneggiare adeguatamente Sifu sarà necessario avere pazienza e allenarsi costantemente, pazienza che è d'obbligo, in questo caso, se non si vuole arrivare a giocarsi più di metà campagna a 70 anni suonati.
Ogni boss di fine livello, il picco di difficoltà di ogni sezione, sarà specializzato in un particolare stile di combattimento e avrà un moveset sì punitivo, ma al tempo stesso leggibile e premiante per chi non agisce passivamente.
Di pari passo con il gameplay, se non a ritmo più elevato, viaggia l'art design del gioco, splendido e originale, che riesce a regalare al giocatore splendidi scorci di paesaggio, giochi di luci e di colori, con una potenza espressiva raramente riscontrata in altre opere di maggior rilievo mediatico. In questo senso, il terzo livello, quello del museo, rappresenta l'apice della potenza creativa di questo talentuoso team emergente.
Più generalmente, su PS4, a livello grafico il gioco è roccioso, molto fluido e costante, con solo qualche piccolo pop up a schermo durante le fasi iniziali dei livelli all'aperto, ma nulla di fastidioso.

I personaggi rilevanti all'interno delle vicende qui narrate sono pochissimi, si contano sulla punta delle dita, ma ognuno di loro possiede un'ottima caratterizzazione, talvolta con dei risvolti sorprendenti.
Peccato però che questo lavoro di approfondimento sui personaggi sia lasciato a se stesso, dato che non viene accompagnato da un comparto narrativo adeguato.
La storia di Sifu parte benissimo, in medias res, con un omicidio e un giuramento di vendetta del protagonista, in pieno stile "Kill Bill". Sostanzialmente però la storia finisce lì. Pochissime saranno le linee di dialogo del giovane lottatore, che sembra vivere le fasi della sua vendetta in maniera distaccata. Sarà possibile ottenere un diverso punto di vista sulla nostra "missione" tramite la raccolta di documenti o oggetti nascosti, che però porterà soltanto ad un true ending scontato e dimenticabile.
Davvero un gran peccato, perché l'unico fattore che vieta a Sifu di essere considerato un vero capolavoro indie è proprio questa pigrizia nella realizzazione della trama. Inspiegabile, sarebbe bastato davvero poco sforzo in più per ottenere tale risultato.
Non va dimenticato però che il cuore pulsante di questo titolo risiede nella sua anima da picchiaduro arcade, quindi la storia passa in secondo piano in questo caso.

Ad ogni modo, Sifu è un eccellente videogioco, brillante portabandiera della poco esplorata cultura cinese e assuefacente picchiaduro action. Se poi il tutto lo condiamo con un pizzico di elementi rouge-lite e di fasi esplorative, non può che uscirne una leccornia da non lasciarsi sfuggire.
La difficoltà potrà essere proibitoria, ma con l'aggiunta della modalità "facile" non esistono più scuse per non recuperarlo.
Giocatelo e godetevelo fino alla fine.

"That violence breeds violence! But in the end it has to be this way..."


"Do you like hurting other people?"

L'America di fine anni 80 raccontata in tutta la sua violenza, tra surreali sequenze oniriche e sanguinose epurazioni di russi in suolo statunitense.
Un normale venerdì sera a Miami.

In realtà, quella che può sembrare l'esaltazione di quell'estremo patriottismo americano da perseguire con ogni mezzo disponibile, si dimostra ben presto essere l'opposto; il videogioco, che fa del gore gratuito il suo punto di forza, non è altro che una pesante critica alla violenza stessa, per la quale noi giocatori - che siamo "obbligati" a farne uso - arriveremmo a sentirci in colpa una volta terminata la nostra missione.
Tramite il punto di vista del silenzioso protagonista, del cui passato non sapremo mai nulla, saremo partecipi dei traumi e disturbi mentali derivati dall'uso smodato di violenza, anche se rivolta a individui armati e malvagi. Tali momenti, collegati all'aspetto psicologico dell'individuo, avranno una connotazione più surreale e horror, in pieno stile Lynch, fonte di ispirazione dichiarata dagli sviluppatori stessi. A livello prettamente ludico, queste situazioni speciali rappresentano un ottimo stacco dalla routine estenuante di continui massacri, anche se è andata perduta l'opportunità di inserire più contenuti di questo tipo per variare l'esperienza, di per sè molto stancante. Il gameplay loop è piacevole, ma la sua altissima difficoltà e l'elevata rapidità di azione e di riflessi renderebbe necessario un riposo mentale più consistente dopo un certo numero di livelli, e l'unica sezione non-action non basta allo scopo.
Ma questo non è l'unico problema del gameplay di Hotline Miami, ci sono invero diversi dettagli che interferiscono pesantemente sull'esperienza generale, primo su tutti... LE PORTE! Quelle dannate porte! Saranno loro i nemici più temibili del gioco. Possono essere aperte in ogni direzione, ma se dovessi averne una nelle vicinanze al momento di uno sparo o di un colpo con arma fisica, gli avversari non verranno colpiti in alcun modo, ma potranno a loro volta colpire il protagonista, che, come sempre, morirà in un colpo solo; in un gioco frenetico dove devi fare attenzione ad ogni possibile nemico che giunge da qualsiasi parte della mappa per ucciderti, il dover tener dietro anche al movimento erratico ed imprevedibile delle porte risulta tremendamente fastidioso. Stesso discorso vale per le collisioni con gli angoli di porte o ingressi ad un'altra stanza, che rischiano di bloccarti quel secondo di troppo che avrà come conseguenza la tua dipartita. E poi, dulcis in fundo, ogni tanto capiterà di non mandare a segno qualche colpo con arma da fuoco, sempre che si sia riuscito a mirare con precisione tramite una mira manuale poco precisa e/o una mira automatica scomoda da usare. Dettagli che non annullano di certo tutto il divertimento derivato dall'ottimo level design, dalle numerose tipologie di armi a disposizione e dalle disparate abilità da sbloccare livello dopo livello, però gli impediscono di spiccare il volo.

Esteticamente, pur essendo un indie in pixel art con visuale dall'alto, Hotline Miami possiede un fascino particolare e iconico, dettato da uno stile vaporwave che mette in risalto tutti i suoi aspetti grotteschi e violenti. Molto curate pure le animazioni, che aiutano a comprendere meglio i caratteri dei vari personaggi. Piacevoli anche gli asset utilizzati, sebbene non sempre siano distinguibili le pareti trasparenti (attraverso le quali ci si può far scoprire) dalle pareti normali.
Collegata a doppio filo si presenta la colonna sonora, che varia da brani techno a brani ambientali o metal, a seconda della situazione fisica e psicologica del protagonista.

Inversamente a quel che ci si aspetterebbe, Hotline Miami è un'ottima produzione indipendente, fortemente incentrata sulle sezioni action arcade ma il cui fiore all'occhiello risiede nella trama e nella sua narrazione silenziosa. Il finale potrebbe destare qualche perplessità, inizialmente, ma se il giocatore sarà attento e coglierà tutti gli indizi lasciati dai dialoghi o dalle scene di gameplay puro, allora potrà visualizzare il quadro generale e apprezzare il grande lavoro svolto dagli sviluppatori e scrittori.
La difficoltà elevata e la sua ormai datata uscita, lo rende un titolo destinato ad una piccola nicchia di appassionati di videogiochi (e anche di film), ma saprà dare grande soddisfazione a chi avrà la pazienza, e lo stomaco, di portarlo a termine.

"They were all scum anyway, weren’t they?"

Quando la semplicità può portare a grandi risultati.

Humanity è fatto così. Gioco dalle semplici meccaniche e dalla semplice realizzazione tecnica. Semplice, ma non banale.
Così come ogni casa è costruita partendo da semplici mattoni, Humanity è costituito partendo da semplici meccaniche e semplici texture che, messe insieme da sapienti menti creative, danno vita ad un puzzle game sorprendentemente versatile, che saprà intrattenere anche i più appassionati del genere.
Stesso discorso va applicato alla direzione artistica, la quale, specialmente nelle parti finali, regala coreografie geometriche impressionanti, al cui confronto non potremo far altro che sentirci insignificanti.

Quel che si può dire della storia, senza privare il paziente (o pazzo?) lettore del gusto della scoperta, lo suggerisce il titolo stesso: Humanity sarà una grande riflessione filosofica sul concetto di umanità, in cui verranno posti quesiti sulla sua essenza e sul suo percorso verso un imperscrutabile destino.
Sebbene ciò non sia una novità nella narrazione videoludica, rimane comunque uno spunto interessante su cui riflettere nella vita quotidiana.

La semplicità è anche relax. Certi enigmi risulteranno parecchio difficili da risolvere, ma la sperimentale ed armonica colonna sonora attutirà ogni nostro stress, rendendo il processo di "trial and error" per nulla svilente, anzi, si verrà incentivati a provare e riprovare ogni livello fino a trovare la soluzione più ottimizzata e funzionale possibile.

Il protagonista, un frammento di luce pura a forma di cane, dovrà guidare l'umanità al termine del livello per completare il puzzle, e per farlo avrà a disposizione una serie di "segnali stradali" da posizionare in giro per la mappa. Il controllo di questo personaggio sarà dunque di vitale importanza per la corretta fruizione del gioco; per quanto, pad alla mano, comandare questo lucente cagnolino sia piacevole, risulta altresì super limitante, dato che non sempre potremmo raggiungere comodamente ogni anfratto del livello, anche quando servirebbe un tempismo preciso. Tal cosa può essere vista come "difficoltà aggiuntiva", ma in realtà è solo una "difficoltà artificiale" che non aggiunge niente di più all'esperienza complessiva.

Da apprezzare, inoltre, la modalità "area personalizzata", in cui sarà possibile, con un editor ricco ed intuitivo, creare dei propri livelli da condividere alla comunità, in cui far sfoggio di tutta la propria creatività.

Se cercate un esperienza rilassata ma non per questo facile e banale, Humanity è ciò che fa al caso vostro. Uno dei migliori puzzle game degli ultimi tempi. E pure in VR. Nice.

"Woof woof!"

Kingdom Hearts è sicuramente un gioco propositivo, che fornisce al giocatore una grande quantità di attività, principali e secondarie, atte a variare il flusso di gameplay con idee interessanti, una su tutte la personalizzazione della propria navicella spaziale e il sistema di abilità.
In teoria, dunque, non ci dovrebbe essere alcun problema... purché anche tutto ciò che le concretizzi sia stato progettato con cura.

No, non è così.

Forse è semplicemente invecchiato male nel 2024, forse è la mia scarsa attrazione verso il mondo Disney a parlare, o magari sto fraintendendo il target di riferimento, ma più ci penso più non mi capacito di come, in 22 anni, KH abbia riscosso un successo tra pubblico e critica tale da arrivare ad essere una delle saghe più impattanti nella cultura popolare e nei cuori dei giocatori.
Registicamente è inguardabile, filmati e dialoghi sembrano andare ognuno per una propria direzione, il sistema di combattimento è legnoso, ripetitivo e con un targeting ingestibile, le fasi di esplorazione sono ingessate a causa dei salti schizzati ed imprevedibili e a causa di una telecamera che esiste per il solo scopo di metterci i bastoni tra le ruote, le sezioni di nuoto o di volo sono ingiocabili, la storia è più infantile, retorica e stupida di un gioco di Super Mario e i personaggi sono perlopiù stereotipati. Potrei continuare ancora a lungo, ma ho reso il concetto; l'unico elemento che non ha colpe, anche perché si poggia su basi già consolidate negli anni, è la colonna sonora di Yoko Shimomura, apprezzabile anche nel materiale originale.

Se l'avessi giocato da piccolo mi sarebbe sicuramente piaciuto di più, ma non sarei stato obiettivo, perché avrei colpevolmente sorvolato su diversi problemi dai quali è impossibile voltare lo sguardo.

Personalmente non lo consiglierei a nessuno, se non agli amanti dei classici Disney e a chi vuole aumentare il proprio bagaglio culturale videoludico, giocandosi un pezzo di (a mio parere "sopravvalutata") storia videoludica.

Bluepoint Games è una software house dall'enorme talento, che, nonostante un esordio nel settore non proprio esaltante, meriterebbe di ricevere tutto il budget possibile per creare un proprio gioco originale, senza passare per remasterizzazioni, porting o remake.
Ad oggi, tuttavia, solo di questi dobbiamo accontentarci (e goderci).

Demon's Souls rappresenta indubbiamente una delle produzioni, in esclusiva Playstation 5, più importanti della nona generazione, specialmente in relazione al comparto grafico. Già con Shadow of the Colossus, in uscita su PS4, si poteva notare tutto il talento degli sviluppatori americani nella cura della realizzazione di ogni dettaglio estetico e dalla rielaborazione artistica del materiale originale, tanto reimmaginata quanto fedele, regalandoci paesaggi maestosi a perdita d'occhio. Con la stessa qualità, anzi, con le dovute migliorie rese possibili grazie all'hardware di nuova generazione, è venuto alla luce il remake dello storico Demon's Souls, un diamante grezzo che avrebbe portato alla creazione di Dark Souls che, a sua volta, avrebbe rivoluzionato il mercato videoludico.
Nel mettere mano ad un'opera di così grande importanza ci sarà sicuramente stato un certo timore reverenziale tra i dev, che purtroppo si è manifestato in alcuni aspetti del gioco in questione; dal ritmo del combattimento alle meccaniche di peso, Demon's Souls Remake non coglie l'occasione di privarsi di elementi ludici che già ai tempi risultavano datati, la cui assenza tuttavia non avrebbe snaturato l'essenza dell'action jrpg di From Software. Il level design di alcune aree di gioco continua a risultare artificiosamente difficile e poco soddisfacente da esplorare, mentre in altri casi si ha la situazione opposta, in cui viene enormemente premiata l'esplorazione, sia ludicamente che visivamente.
All'interno di Demon's Souls, inoltre, sono presenti certe meccaniche che non vengono onestamente spiegate, magari tramite indizi segreti o tutorial, e questo un po' rovina, non tanto la prima, quanto l'esperienza del ng+.

Tuttavia, per quanto siano comprensibili queste ruvidità non eliminate dal gioco, giustificabili con il senso di continuità con l'originale, è inspiegabile come Bluepoint Games e From Software abbiano mancato l'enorme occasione di rimediare alla più grande mancanza di Demon Souls: la sesta arcipietra. Originariamente, tale livello, fu cancellato dalla produzione per una mancanza di tempo e budget, dunque sarebbe stato perfetto se fosse stato inserito in questo remake, rinato dai progetti e dagli appunti del team di From. Ciò, purtroppo, non è mai avvenuto, lasciando l'amaro in bocca non tanto a chi giocava a DS per la prima volta (me compreso), quanto ai fan di vecchia data, dai tempi PS3.

Un altro aspetto rimesso a nuovo in questo remake è la colonna sonora, sempre molto fedele all'originale ma con diverse tonalità, molto ben riuscite, che donano all'opera un'aura di maggior mistero e di una, per così dire, "epica rassegnazione", manifestata tramite le storie dei personaggi che incontreremo, la quale delineerà l'evanescente lore del mondo di Boletaria & Co.

Pertanto, a far da contraltare ad un gameplay vecchio e spigoloso, ci pensa l'eccellente direzione artistica e sonora, oltre ad una bellissima storia introspettiva ed esistenzialista, nata dalla penna di un allora inesperto (ma futuro maestro) Hidetaka Miyazaki.
Esperienza che ogni possessore di PS5 dovrebbe vivere.

"You fool... Don't you understand? No one wishes to go on..."

Se non avete voglia di leggere, la sintesi di questa recensione è: "Tutta questione di aspettative".

Concrete Genie ci riporta all'infanzia, a quando non esigevamo titoli dalla grafica "spacca-mascella", a quando non servivano trecento ore di gioco, per sentirci soddisfatti o venti tipi diversi di quest secondarie per intrattenerci.
Il gameplay di CG non possiede una grande varietà, anzi, per gran parte del tempo mantiene sempre lo stesso stile di gioco, piuttosto evanescente nelle sue caratteristiche. Di concreto, però, qualcosa esiste ed è la nostra fantasia. Noi giocatori siamo chiamati in prima persona a colmare i solchi lasciati dalla superficialità di questo videogioco, proprio tramite quell'immaginazione che eravamo soliti usare da bambini, anche con avventure mediocri.
Tutto quello che dovremmo fare per la maggior parte del tempo sarà dar vita con il nostro pennello magico ai grigi muri di Denska, una cittadina portuale inquinata e disabitata, ad eccezione di un gruppetto di giovani bulli che proveranno a metterci i bastoni tra le ruote.
Tralasciando la scialba e retorica parte narrativa incentrata sul bullismo, delicato argomento che avrebbe meritato una più approfondita e seria analisi, la peculiarità di questo gioco è senza dubbio la pittura, che saremo noi stessi a gestire in prima persona, muovendo e inclinando pad come se fosse un pennello. Certo, i disegni sono già precostruiti, ma dovremo attingere al nostro estro artistico per modificarli o combinarli tra di loro. Alla fine di ogni "lavoro" daremo vita non solo a meravigliosi murales, ma anche a vere e proprie creature, che ci aiuteranno, in maniera diversa a seconda delle proprie caratteristiche, a risolvere enigmi ambientali e a depurare la città.
Il gameplay loop è piacevolissimo e soddisfacentemente personalizzabile, non solo nell'immediato ma fino alla fine della storia; a seconda di quello che disegneremo, animazioni, cutscene ed estetica di alcuni personaggi si adatteranno infatti alla nostra arte.
Alla fine il gioco è tutto qui. Una piccola perla deliziosa e divertente, imperdibile e preziosa.

O meglio, questo sarebbe stato l'ideale, se solo il team di PixelOpus non avesse voluto andare oltre, forse nel tentativo di raggiungere le alte aspettative causate dall'essere una esclusiva first party di Sony.

Oltre alle sezioni "artistiche", verranno aggiunte delle insignificanti parti stealth, del tutto evitabili, e una più consistente parte action, tristemente ingestibile. Tutto questo non ha senso di esistere, rovina solo l'esperienza rilassata e intimistica che poche produzioni odierne riescono a fornire.
Inoltre, sebbene la direzione artistica di questo gioco sia eccellente, con uno stile quasi fumettistico e le animazioni che si rifanno alla tecnica stopmotion, il suo aspetto tecnico lascia molto a desiderare a causa di un framerate ingiustificatamente instabile e di alcune imperfezioni grafiche, quali pop up a schermo o texture dalla scarsa risoluzione.
Aggiungiamo a tutto questo dei dialoghi imbarazzanti per la loro banalità e per il loro slang da "falsi giovani", tanto caro a chi di gioventù reale sa poco e niente. L'unico personaggio scritto bene, per cui arrivi ad empatizzare, e anche tanto, non parla proprio, e ciò significa parecchio.

Il problema più grande di Concrete Genie è la sua natura di esclusiva PS4 (e PSVR), che va a "snaturare" la sua vera essenza, quella di gioco indipendente sperimentale. In questo modo si sono create troppe aspettative su un'opera che, pur di raggiungere l'altezza minima richiesta da certi standard, si sforza di rimanere per ore faticosamente in punta di piedi. E purtroppo si nota.
Ciò mi crea un grande dispiacere, poiché esperienze simili non capitano tutti i giorni nel panorama videoludico e di Concrete Genie, nonostante tutto, mi rimarranno solamente bei ricordi. Da giocare.

L'arte è comunicazione silenziosa, una linea sottile che unisce i cuori delle persone, anche quelli apparentemente molto distanti l'uno dall'altro.

Sarebbe anche bello, ma l'art direction è troppo confusionaria e disorientante.
Lo finirò più avanti, anche se già ho i miei sospetti sul killer.

Giocare a "Evil Twin: Cyprien's Chronicles" significa vivere le ultime ore di vita di un pesciolino prima che venga pescato: inizialmente percepisci un buon profumo, ti intrighi, nuoti tutto contento, inizi a gustare pian piano l'esca... e poi, di colpo, finisce tutto; l'amo ti si conficca sul palato e vieni trascinato forzatamente a riva, luogo oltre il quale una lunga agonia precederà l'inevitabile fine di tutto.

In sintesi: questo piccolo platform di inizio epoca PS2, nonostante un inizio promettente, presenta numerosi problemi strutturali e di gameplay, sempre più gravi e invadenti con l'avanzare del tempo e, analogamente, persino una carenza di idee e un impoverimento del level deisgn.

Come ripetuto più volte, nei primi minuti di gioco assistiamo ad un incipit enormemente interessante, sia a livello di trama, che si proponeva essere una fiaba a tinte horror con tematiche e linguaggi adulti, sia artisticamente, grazie al tratto irregolare e distopico che contraddistingueva i personaggi e l'ambientazione.
Pure la musica iniziale, al tempo stesso infantile e tetra, aiutava il giocatore ad immergersi completamente nell'epopea di Cyprien, il giovane protagonista.
Tutto sommato un buon titolo, una perla nascosta made in Ubisoft, si penserebbe arrivati a questo punto... poi però, dopo poco, scoppia la bolla e viene fuori tutta la sporcizia.
La telecamera è il principale problema del gioco: la sua pessima gestibilità non permette di avere una buona visuale sul percorso da attraversare, arrivando talvolta alla totale occlusione della vista, che ci obbliga a procedere a caso, perdendo nel processo molte vite. Similmente odiosi i movimenti del protagonista, imprecisi e legnosi, che danno l'impressione di camminare costantemente su ghiaccio; questi non solo sono dannosi per le semplici parti in cui bisogna fuggire da un nemico o combatterlo, ma principalmente per le sezioni platforming, frustranti oltremisura.
Ipotizzando anche che tutti questi elementi possano essere soprassedibili, non svanirebbe comunque la sensazione di disagio nel giocatore che, oltre a esperire salvataggi corrotti e glitch di ogni tipo, più o meno influenti, spesso si troverà incapace di avanzare nella storia per il semplice motivo che... non gli si viene spiegato cosa fare. Non sempre le indicazioni del diario di Cyprien basteranno, quindi saranno frequenti, soprattutto nelle ultime sezioni di gioco, momenti in cui bisognerà compiere insensate azioni anti intuitive per aprire una porta, sconfiggere un nemico o risolvere un enigma, per poi procedere ad una sezione successiva con lo stesso problema.

Portare a termine Evil Twin è stata un'agonia che non augurerei a nessuno. Persino la storia, dapprima affascinante e misteriosa, si è conclusa in un nulla di fatto, privata del suo scopo originario.
Sembra che gli sviluppatori avessero in mente un seguito, poi cancellato da Ubisoft per le scarse vendite del primo, ma se la qualità sarebbe stata invariata... forse dobbiamo ritenerci fortunati.

Lisa: The Painful è un giavellotto d'acciaio incandescente scagliato a tutta forza verso il giocatore, nelle cui più profonde viscere penetra e si contorce, amplificando il dolore man mano che la storia progredisce.
Esistono tanti videogiochi capaci di colpire nell'animo, magari tramite l'esplorazione di tematiche personali o risvolti narrativi che aumentano l'empatia verso certe scene, ma mai come in questo caso burattino (il protagonista) e burattinaio (il videogiocatore) condividono la stessa anima, nella - quasi assente - gioia e nel - frequente - dolore.

L'intricata e complessa trama di questo indie, sequel spirituale di "Lisa: the first", ruota attorno a Brad Armstrong, un uomo burbero, solitario e dall'oscuro passato, che vedrà sconvolgere la sua vita in seguito alla scoperta di una neonata abbandonata in un mondo post-apocalittico, in cui follia e depravazione hanno avuto la meglio su ragione e umanità; Brad decide dunque di "adottarla" per tenerla al sicuro, ma, diversi anni dopo, questa ragazzina verrà rapita. Il protagonista, uomo ormai divenuto vecchio e stanco, deciderà di intraprendere un lungo viaggio per, a suo dire, trovare la giovane e salvarla dallo sfruttamento del mondo.
Ciò che colpisce maggiormente di tutta questa drammatica epopea è proprio la caratterizzazione di Brad, che per il suo ruolo nella narrazione dovrebbe essere considerato un eroe, e probabilmente è proprio quello che crede di essere, ma se osservassimo con uno sguardo più distaccato il susseguirsi di eventi e scelte, capiremmo quanto in realtà dovrebbe essere considerato alla stregua dei più beceri villain, e ciò si riflette parecchio sulla vita di tutti i giorni, su quanto sia relativa la barriera che separa il bene dal male. Quanto diritto abbiamo di decidere anche per i nostri cari cosa sia giusto o sbagliato? Non è la stessa "protezione" una forma di violenza? Oltre a questi concetti, il protagonista di LTP viene presentato come un uomo estremamente fallibile, un drogato, una persona che fa di tutto per farsi detestare ma che, al tempo stesso, pretende l'amore e l'affetto di chi gli sta intorno.
In sostanza, Brad siamo noi!
Chi per un aspetto e chi per un altro, troverà parecchia affinità con un personaggio di fantasia, colui il quale sarà chiamato a compiere diverse scelte morali che, per quanto non avranno ripercussioni sulla storia, saranno drasticamente importanti a livello di gameplay; in questo modo non è tanto il gioco a soffrire, ma siamo noi, persone reali, a subire le conseguenze delle NOSTRE scelte. E non si parla di cose di poco conto, ma di eventi che porteranno a interi rimescolamenti delle strategie messe a punto dall'inizio del gioco.

Lisa: The Painful, a differenza del suo predecessore, si presenta come un gioco di ruolo a turni occidentale, con piccoli elementi platforming, parecchio ispirato nelle meccaniche e nell'assurdità di certi combattimenti ai capolavori di Shigesato Itoi, ovvero i Mother.
Sebbene le lotte in sè per sè siano molto basilari, con qualche piccola apprezzabile eccezione, a rendere il gameplay loop più vario e divertente ci pensano i nostri compagni di squadra. Il nostro party sarà composto, come in molti giochi di questo tipo, oltre che dal protagonista, da tre individui, che possiamo "arruolare" nel nostro team tramite o, semplicemente, un pagamento, oppure piccole quest secondarie a loro collegate. Il mondo di gioco sarà pieno zeppo di possibili componenti del party, quindi non solo potremmo spezzare la "monotonia" della quest principale andando a svolgere attività differenti, ma in più avremmo una maggiore personalizzazione dello stile di combattimento e delle tattiche di gioco. Ogni npc avrà le sue peculiarità, talvolta nonsense o esagerate, e sarà sempre un piacere intercambiarli per provarli in battaglia.
Altra peculiarità di LTP è la sconfinata lista di bonus e malus, che fortunatamente non bisogna imparare a memoria grazie ad un piccolo reminder durante le lotte, alcuni dei quali rappresentano status più classici come "rabbia", "ustione" o "sanguinamento", mentre altri si differenziano per il loro "realismo", come per esempio "ubriachezza", "astinenza" o "imbarazzo" e così via. Purtroppo però solo pochi sono gli status realmente importanti e più frequenti in battaglia, dunque non sarà possibile creare build ad hoc per sfruttare al meglio determinati malus o bonus.

Il comparto artistico di questo gioco mi lascia interdetto: se da una parte mi sento di lodarlo per la sua capacità di creare scene suggestive, talvolta anche molto disturbanti, con pochissimo materiale a disposizione, dall'altra parte non posso che mostrare un certo disappunto nel vedere una scarsa varietà sia di ambientazioni che di nemici. Una parte interessante di questo setting distopico era la presenza di creature (un tempo umane) mostruosamente deformate; si aveva dunque la possibilità di creare un proprio vasto catalogo di atrocità viventi in stile "Fear & Hunger", ma ciò non è avvenuto. I nemici diversi dai semplici umani incattiviti, anch'essi dal design non troppo brillante, sono troppo pochi e molti sono simili tra loro. Stesso discorso, con ancor più convinzione, va fatto alle ambientazioni che, ok che si tratta di un setting apocalittico in cui tutto è appassito, ma riproporre per 10 ore di gioco praticamente gli stessi asset con colori e filtri leggermente diversi viene a dar noia.
Fortunatamente, in questo caso, viene in soccorso il buon level design a distogliere l'attenzione del giocatore.

Tirando le somme, Lisa: The Painful è una perla rara che, sebbene sia imperfetta, nessun amante del videogioco in quanto arte dovrebbe lasciarsi sfuggire, anche se la difficoltà, pur regolabile, potrebbe risultare proibitiva per la maggior parte delle persone. Ma si sa, il fallimento fa parte della vita e tutto quello che possiamo fare, come il nostro Brad, è cercare di accettarlo, per il bene nostro e di chi ci sta intorno.

"You don't understand. I've been dead for 35 years. Today is the day I live."

Breve avventura grafica dai toni surreali, ispirata al visionario Yume Nikki e tratta, purtroppo, da una drammatica storia vera.

Lisa: The First è una allegoria interattiva dell'abuso domestico e, soprattutto, delle profonde cicatrici che tale crimine lascia, indelebili, nella mente delle vittime.

La struttura ludica è ispirata a quella del sopracitato Yume Nikki, nella quale viene data al giocatore la possibilità di esplorare cinque livelli, ognuno con una tematica differente, nell'ordine che si preferisce, nei quali sarà possibile raccogliere oggetti per barattarli o utilizzarli al fine di risolvere piccoli enigmi.
Per quanto le premesse siano interessanti, il prodotto finale abbassa le aspettative; a mente fredda risulta molto più lineare di quel che sembra, gli enigmi sono banali e talvolta il codice di gioco esprime certe ingenuità, spiegabili tranquillamente con l'inesperienza del dev alla sua opera prima e alla gratuità del software. Inoltre, ciò passa irrimediabilmente in secondo piano, dato che il focus principale di questa esperienza rimane la trama.

Nonostante non contenga esplicitamente alcun elemento spaventoso, "Lisa: The First" riesce comunque ad inquietare il giocatore, seppur indirettamente; il disagio non scaturisce da jumpscare o immagini grottesche, quanto più dalla terrificante verità celata dietro a tutto ciò.
Non è il gioco a spaventare, ma la nostra realtà quotidiana.




Il DLC/Sequel standalone di "Lisa: The Painful", rispetto al predecessore, non innova granché dal lato ludico, benché indirizzi il giocatore ad adottare un approccio più calcolato in battaglia e strategico nella gestione di risorse; tuttavia, come era prevedibile, si concentra maggiormente sulla narrazione, ampliando e concludendo i terribili eventi iniziati con il viaggio di Brad alla ricerca della sua "Ometta" nella Olathe devastata dal "Flash".

La gestione della difficoltà in "Lisa: The Joyful" è decisamente più onesta rispetto al gioco base, ma non per questo più semplice, anzi. Saranno pochissimi gli oggetti curativi a nostra disposizione, così come non esisterà praticamente nessun pg a darci supporto in battaglia, saremo solo noi e la nostra tattica, soli contro un mondo di spietati mostri (umani e mutanti) pronti a darci la caccia per i peggiori motivi.
Intendiamoci, The Joyful è un gioco piuttosto breve, perciò non avremo a disposizione un arsenale di mosse estremamente vario e malleabile, però sarà comunque divertente utilizzare quelle a nostra disposizione, ottenute, naturalmente, livellando la scatenata protagonista.
Degna di nota è l'aggiunta della corsa, feature che indorerà la pillola dei costanti backtracking e runback a cui saremo sottoposti.

Portare avanti una delle più belle storie del panorama videoludico, indipendente e non, mantenendo alto al contempo il livello di qualità della narrazione e dello sviluppo dei personaggi non era di certo un compito semplice, persino per la stessa mente creativa dietro la saga dei "Lisa".
The Joyful, purtroppo, non riesce totalmente nell'impresa. Sicuramente alcuni momenti sono memorabili e lo sviluppo della protagonista lascia molto a riflettere sul tema dell'autodifesa, ma è anche vero che i nuovi eventi non forniscono delle risposte soddisfacenti agli ultimi quesiti lasciati in sospeso, oltre i quali non si sentiva realmente il bisogno di questo sequel. Alcuni personaggi vengono totalmente stravolti, con il risultato di ottenere la perdita di tutto il loro senso drammatico. Ma questa è trama canonica e l'autore ha "sempre" ragione... magari in un futuro uscirà un seguito o un prequel che fornirà ulteriori chiarimenti.

Tecnicamente è possibile giocarlo senza aver prima recuperato "Lisa: the Painful", ma non lo consiglierei affatto, altrimenti non potrebbe essere totalmente comprensibile.

Alla fine si tratta di un buon rpg, ma non di certo di una perla da recuperare a tutti i costi, al contrario del prequel.



Harold Halibut è un gioco iconico, unico nel suo genere. Uscito dopo quasi un decennio di lavorazione presso un piccolo team indipendente (anche se non si direbbe), questa bizzarra avventura sci-fi, realizzata in uno stile che ricorda la tecnica della stop-motion, vola talmente in alto da sfiorare l'appellativo di "Capolavoro".
Capolavoro, però, non è, poiché Harold Halibut tradisce proprio laddove il videogiocatore ripone maggior fiducia: l'esperienza interattiva.

Se questa fosse una recensione professionale spenderei paragrafi interi di elogi verso quasi ogni aspetto del gioco, ma in questa sede meglio sintetizzare; la storia è appassionante, i personaggi sono delineati con una cura ed un amore immensi, il doppiaggio è sbalorditivo, il reparto artistico è unico e curato nei minimi dettagli, la colonna sonora è evocativa e i dialoghi sono brillanti.
Se fosse un film, potrebbe anche superare i lavori di Wes Anderson, grande ispirazione per il gioco.

Probabilmente chi non ha mai giocato Harold Halibut ora si chiederà: di che genere videoludico fa parte? Platform, Puzzle game, Horror, Avventura Grafica...
Nessuno di questi. O meglio, nessuno in generale. In senso negativo.
Harold Halibut non crea un nuovo genere, ma li distrugge tutti quanti. Non è un avventura grafica perché non ci sono enigmi, non è un walking simulator perché c'è ben poco da camminare, non è una visual novel perché è pieno di cutscene. Non è niente, gli unici momenti interattivi prevedono di spostare (pure lentamente e con diversi caricamenti) il protagonista da una parte all'altra della mappa di gioco. That's it.
Ci sono piccole variabili sporadiche, ma sono estremamente guidate e lineari. Ogni tanto si ha l'impressione che se abbandonassimo il controller o la tastiera sul tavolo il gioco si finirebbe da solo.
L'unica vera libertà che ci viene concessa è l'esplorazione delle location "Raptureiane", in cui sarà possibile scambiare qualche nuovo dialogo con gli npc per conoscerli meglio (senza però che ci sia alcuna influenza sulla trama) e sbloccare delle immagini disegnate dal nostro Harold in persona. Sebbene questa parte sia carina e rilassante, è troppo poco per un gioco che dura sulle 15 ore, in cui più della metà sono dedicate a filmati o conversazioni.
Questa penuria di interazione lo rende più un film interattivo che un videogioco vero e proprio, con la conseguenza di un sensibile abbassamento della valutazione.

Detto questo, Harold Halibut rimane un gran bel gioco, un'esperienza unica, profonda ed emozionante. E' la storia di chi vaga sconsolato alla ricerca di un ambiente che rispecchi la propria essenza, una casa per la propria anima, rifiutando così le classiche convenzioni a cui l'uomo sembra destinato a prendere parte dalla nascita, oltretutto non per una propria decisione, che invece altri, sconosciuti e defunti, prima di lui si sono permessi di compiere.
Molte testate giornalistiche hanno affossato questo indie con voti oltremodo bassi. Diversi giocatori hanno criticato questo indie per la sua prolissità, noiosità e insensatezza. In questo caso voglio prendermi una grossa libertà... la libertà di dire che non hanno capito proprio niente. Comprendo le critiche, HH non è esente da difetti, ma dare un voto appena sufficiente o addirittura insufficiente ad un gioiello del genere significa non comprendere il medium videoludico nella sua interezza e/o non amarlo seriamente. Non esistono solo i giochi competitivi, non esistono solo Spiderman, God of War, The last of Us, Horizon, ci sono tante piccole produzioni che vanno salvaguardate e apprezzate per il loro coraggio nel proporre qualcosa di nuovo e rischioso in un mercato che sta iniziando a stagnarsi dietro alle solite produzioni AAA, ormai tutte simili tra loro.

Perciò fatevi un favore e giocate ad Harold Halibut, fino alla fine.

So... true bluglglgl is being happy within uncertainty!


L'unico gatto al mondo agile come un elefante. Comandi rozzi e poco pratici.
Giochino antistress che non possiede lo stesso charm di "A short hike", pur condividendone molti aspetti.

Breve ma intensa l'ultima epopea di Senua, una nuova discesa nella complessa e tortuosa psiche della guerriera del nord, tra dubbi, violenza e compassione.

Senza dubbio, la seconda iterazione di Hellblade, ad opera sempre di Ninja Theory, rappresenta la punta di diamante dell'avanzamento tecnologico dell'industria videoludica.
Ogni singolo elemento "scenografico" possiede un elevatissima conta poligonale e viene reso sempre alla massima definizione, grazie ad un lavoro di mappatura degli ambienti reali a cui il gioco si ispira (perlopiù islandesi), senza precedenti; a rendere ogni inquadratura maestosa contribuisce la tecnologia "Lumen", che pone l'illuminazione generale e la qualità dei riflessi ad un livello raramente eguagliato nel panorama videoludico attuale.
Grandissima cura poi è stata posta nella creazione delle animazioni, praticamente indistinguibili dalla realtà, specialmente quelle dei combattimenti, la cui fluidità e pesantezza ci farà dimenticare per un istante di star giocando ad un videogioco, proiettandoci direttamente sul campo di battaglia, percependo ogni ferita sulla propria pelle.
Indubbiamente il fiore all'occhiello di questa produzione è l'aspetto tecnico, su cui Microsoft ha negli anni puntato molto dopo aver acquisito il team e l'IP, ma vorrei soffermarmi su un altro punto che non viene mai adeguatamente affrontato quando si parla di Hellblade II: la recitazione. Tutto ciò che di bello questo gioco può offrire a livello estetico o narrativo viene esaltato da quella che, probabilmente, sarà la migliore interpretazione attoriale dell'anno, sia per quanto riguarda i comprimari che, soprattutto, per Melina Juergens, l'attrice di Senua, impeccabile dal primo minuto, intensa, credibilissima e molto plastica nelle cangianti espressioni facciali della nostra eroina, messa a dura prova dalla propria psiche durante questo estenuante viaggio.
L'unico difetto che posso trovare alla grafica di questo gioco riguarda la realizzazione dell'acqua, da sempre croce e delizia (più croce) dei developer, che risulta nelle increspature e nelle onde piuttosto approssimata e statica, il che soprende molto visto tutto il resto.

Uno degli aspetti che ha fatto molto discutere riguarda il framerate: al fine di migliorare l'immersività e permettere una così alta risoluzione degli ambienti di gioco, Hellblade II è lockato a 30fps e presenta due bande nere cinematografiche.
Per quanto io sia dell'idea che al videogiocatore bisognerebbe SEMPRE dare la possibilità di scelta, bisogna ammettere che questi 30fps quasi non si notano e basteranno pochi minuti di gioco per abituarsi alle bande nere, perciò il problema della mancata scelta è davvero marginale.

Ciò che invece marginale non risulta è la parte ludica. Intendiamoci, non era un segreto che il focus di Senua's Saga sarebbe stato tecnico e narrativo, però dopo un'attesa durata 7 anni dal primo capitolo, che invece si difendeva bene a livello di gameplay, ci si aspettava un qualcosa di più elaborato... o quantomeno di diverso!
E invece abbiamo ottenuto una prolungazione dello stesso "modus giocandi", con solo qualche piccola variazione degli enigmi, ben poca roba per le potenzialità che poteva esprimere.
Le lunghe camminate introspettive (e di autocompiacimento della realizzazione artistica) verranno sporadicamente interrotte da due situazioni: la risoluzione di apprezzabili, ma banali, enigmi ambientali e da combattimenti.
I primi consistono nel trovare la giusta prospettiva per visualizzare una runa, oppure accendere e spegnere delle braci per rivelare o celare nuovi percorsi. Un po' ridondanti, ma sparuti. I secondi, più divertenti, saranno scontri all'arma bianca in cui bisognerà destreggiarsi tra schivate a tempo, parate perfette e colpi leggeri o pesanti; sebbene sia più semplificato e meno divertente rispetto alle analoghe sezioni del prequel, lo swordfighting di Hellblade continua a dimostrarsi soddisfacente e, grazie alle maniacali animazioni di lotta di questo titolo, totalmente immersivo. Di contro, però, troviamo una "difficoltà", se così si può chiamare, inesistente, in quanto morire sarà veramente difficile e, in alcuni casi, pure impossibile; tutto ciò svilisce queste parti interattive, rendendole di fatto una formalità superficiale e sbrigativa.

La trama è uno dei punti cardini di questo tipo di esperienze. Interessante ed evocativa, parla di un nuovo viaggio all'inferno, stavolta umano, visto dal punto di vista della sfortunata Senua, tra giganti e tiranni, in cui più volte non sarà chiaro dove inizia la fantasia e termina la realtà.
Seppur priva di colpi di scena, l'epopea islandese trova il suo fascino nella lotta interiore di una persona fragile che, in un mondo spietato e violento, vede costretta ad imporsi come persona grintosa e sicura di sè, quando in realtà desidererebbe soltanto trovare pace e qualcuno con cui condividere i propri tormenti, che potesse capirla, anche fosse un mostro, poiché "tutti i mostri un tempo erano umani".
Detto ciò, nonostante abbia apprezzato il lavoro artistico dietro una storia tanto intimistica e psicologica, che a suo modo sensibilizza su un argomento delicato del genere, devo dire che il personaggio di Senua perde molto del suo fascino rispetto a "Senua's Sacrifice", titolo che non necessitava affatto di un seguito; per certi versi perderebbe pure credibilità se non fosse per la recitazione eccelsa di Melina.
I personaggi secondari, fedeli compagni di viaggio, rappresentano una piacevole novità dal punto di vista narrativo, grazie anche a dei dialoghi sbloccabili in NG+, ma risultano, a conti fatti, tranne un caso, poco impattanti a livello di trama.

Ci sono, tuttavia, due piccoli personaggi, a noi già noti, che valorizzeranno un altro picco qualitativo di questo gioco: le voci interne.
Come nel prequel, noi giocatori, così come la protagonista, percepiremo costantemente delle piccole vocine nelle testa, ognuna rappresentante uno stato d'animo di Senua: paura, rabbia, sensi di colpa, orgoglio, rimorso etc, e il tutto sarà amplificato dal sistema dei suoni binaurali tridimensionali, una sorta di 8D, rendendo così molto realistica la sensazione di "psicosi". Ma non solo le voci, tutti i suoni del mondo di gioco saranno di altissima qualità e li percepiremo come se fossimo noi stessi in quel mondo.

Senua's Saga: Hellblade II è una perla audiovisiva di prim'ordine, un vero e proprio film interattivo, in cui la differenza tra interazione e filmati è inesistente, anche grazie ad un'ottima regia e ad un piano sequenza unico di estrema qualità.
Di contro, si parla anche di un gioco molto breve (sulle 5/8 ore), molto lineare (ad eccezione di qualche deviazione per ottenere "collezionabili" facoltativi) e poco interattivo.
Nel bene o nel male, nell'elogio o nella discussione, questo gioco sarà un punto importante nella storia videoludica e farà parlare molto di sè nel corso degli anni.
Il prezzo di 50 euro forse può essere proibitivo per molti in relazione alle ore di gioco, ma grazie al game pass sarà possibile recuperarlo con poco. Consigliato assolutamente a chiunque.

Quando le droghe non sono soltanto polveri bianche.
Questo è Slay the Spire.

Per chi fosse un giocatore del celebre Heartstone, o comunque ne conoscesse le meccaniche, troverà un'esperienza familiare nel giocare a questo peculiare indie, che debuttò in early access su Steam nel 2017.
Slay the Spire è un deckbuilder single player con combattimenti a turni, il tutto immerso in un contesto rougelike; ad ogni partita, a seconda della "classe" scelta, il giocatore inizierà con lo stesso mazzo di 10 carte, che andranno via via ad aumentare, potenziarsi o distruggersi, combattimento dopo combattimento, salvo poi perdere tutti i progressi in seguito ad una sconfitta.
Per vincere una partita bisognerà farsi strada attraverso quattro livelli di crescente difficoltà, il cui tragitto, però, saremo noi a sceglierlo a seconda delle nostre strategie, siano esse più conservative o più pericolose; chiaramente è tutta una questione di "rischio e ricompensa", nel senso che scegliere di combattere piuttosto che riposarsi a recuperare energie potrebbe, in caso di vittoria, consegnarci una reliquia (un power up passivo), rendendoci, però, al tempo stesso, più deboli e con meno hp per le sfide successive.
Ciò che rende questo sistema di progressione una vera e propria droga è la sorprendente varietà che intercorre tra una run e l'altra, dato che saranno innumerevoli le tipologie diverse di carte e reliquie che potremmo ottenere e, di conseguenza, innumerevoli saranno le tattiche con cui affronteremo una partita, la quale non sarà mai identica a quella precedente.
Da apprezzare, inoltre, sono gli eventi casuali, contrassegnati in mappa da un punto interrogativo, in cui, in pieno stile di avventura testuale anni 80, potrà capitarci la qualunque, dall'incontro con spiritelli amichevoli che ci cureranno in cambio di carte da bruciare fino a duelli tra cavalieri su cui dovremo scommettere denaro. Inutile dire come questo aumenti ancor di più la rigiocabilità del titolo.
Gli scontri contro i nemici base sono generalmente bilanciati, tranne qualche eccezione mal calibrata che richiede l'utilizzo forzato di consumabili; lo stesso discorso va fatto per i boss e i nemici elite, ad eccezione del "mostro finale", che è un po' "too much". Se non si è svolto un percorso perfetto fino a quel punto, sarà matematicamente impossibile sconfiggerlo, con la dura conseguenza di dover ripetere quelle 2/3 ore di gioco per arrivare sin lì.

Il gameplay è il fulcro trainante di Slay the Spire e probabilmente l'unico elemento su cui gli sviluppatori, alla loro prima esperienza produttiva, si sono concentrati.
Tutto il resto è presente, talvolta con qualche guizzo di inventiva, ma estremamente secondario e abbozzato.
Abbiamo una storia non pervenuta, a malapena accennata nella descrizione delle varie classi, quasi nessuna lore e nessun personaggio degno di attenzione.
Abbiamo un comparto sonoro composto da due o tre musiche in croce, riprodotte in loop di continuo per tutto il tempo, piuttosto fastidiose, tanto che il modo corretto per godere appieno del titolo è quello di azzerare l'impostazione della musica. E questo la dice lunga.
Abbiamo un art design apprezzabile in un primo momento, ma che arriva a stancare e deludere dopo poco per la sua anonimità. Le animazioni di battaglia sono trascurabili, laddove siano effettivamente presenti. Invero il design dei boss è piacevole, ma piuttosto anticlimatico, dato che gli ultimi due saranno estremamente scialbi e privi di importanza.

Sono consapevole del fatto che tutto ciò non è mai stato declarato essere il punto forte dell'opera, ma non per questo bisogna sottovalutarlo, dato che un videogioco è un sistema ben più complesso di un gioco di carte in sè.
"Inscryption", gioco simile uscito nel 2021, ha dimostrato che invece è possibile conciliare narrazione, estetica e quel tipo di gameplay.

Per il grande supporto alle mod e per l'estrema rigiocabilità del gioco base, consiglio caldamente l'acquisto di Slay the spire a chiunque fosse appassionato del genere.
Ma occhio a non abusarne, ne va della vostra salute.

"Coccoooooooooò!"