Gioco assolutamente neutro, che non sa nè di carne nè di pesce.
Ammetto la mia colpevolezza: l'unico motivo per cui sono stato indotto a recuperare questo horror vecchio stampo è da individuare nella bellissima protagonista, unica vera nota eccellente di questo titolo.

Scherzi a parte, Haunting Ground è un prodotto creato (principalmente) per il pubblico maschile, che fa del fanservice la sua arma più forte e questo non è sbagliato, di per sè, ma quando rappresenta l'UNICA nota di valore di un'opera videoludica è un problema, perché ciò denota una profonda pigrizia creativa e leggero sessismo di fondo.
La bella Fiona Belli, la sventurata protagonista dalle forme notevoli, messe ulteriormente in risalto da abiti attillati e da una fisica "ballonzolante", si troverà a dover fuggire insieme ad un pastore albino di nome "Hewie" da un antico castello italiano, costantemente braccata dagli abitanti del luogo che, per ragioni diverse, bramano di possederla. E basta, la storia è tutta qui, senza risvolti degni di nota.
Gli ambienti, per quanto tecnicamente ben realizzati e a tratti evocativi, sono fini a se stessi, messi insieme senza una vera e propria logica architettonica.
Gli antagonisti che ci daranno la caccia sono insipidi, totalmente incapaci di incutere il minimo timore nel giocatore, risultando a volte pure ridicoli.
L'unica parziale eccezione è "Debilitas", il primo di essi, che nelle prime fasi di gioco ci illude creando situazioni ansiogene, e lasciandoci alte, poi purtroppo disattese, aspettative su quello che sarebbe stata la parte orrorifica.

Haunting Ground prende spunto da diversi survival horror più famosi sulla scena come i Silent Hill, Clock Tower (di cui originariamente doveva esserne un capitolo main line) e Rule of Rose.
Di quest'ultimo, in particolare, viene ripresa ed estesa la meccanica del "companion canino"; per poter uscire indenne dallo spaventoso "Castel Belli", Fiona avrà a disposizione Hewie, un povero cagnolino maltrattato dai precedenti padroni che noi salveremo e dovremo letteralmente addomesticare, lodandolo quando esegue correttamente i nostri ordini e rimproverarlo in caso contrario. Insieme, Fiona e Hewie dovranno risolvere diversi enigmi e sbarazzarsi di chiunque cerchi di far del male ad uno dei due. Tutto ciò l'ho trovato piacevole e originale, anche se talvolta gestire il cane che fa di testa sua può risultare frustrante, soprattutto in contesti più frenetici.

Da giocare? Non si tratta di un'esperienza imperdibile, ma se siete curiosi di provare un horror in salsa italiana e non avete grosse pretese, allora perché no? Alla fine si tratta di un videogioco piuttosto breve, rispetto alla media, e dalla difficoltà contenuta. Un ottimo passatempo per un halloween in compagnia.


Terza tappa dell' "Old Kojima's Tour": Policenauts.
Ad oggi questo è stato il gioco più difficile da reperire e da giocare, in quanto non è mai stato localizzato in altre lingue al di fuori del giapponese, che non conosco.
Fortunatamente, sono riuscito a trovare online una traduzione fan made dei dialoghi testuali, quindi posso dire di essere riuscito a comprendere interamente la contorta avventura noir sci-fi.

Inizio dicendo che, come Snatcher, Policenauts è un titolo peculiare, in quanto mescola un importante blocco visual novel a delle sezioni, anche piuttosto concitate, fps arcade. L'idea di per sé è accattivante (mi riferisco alla versione PS1), ma la dura realtà mette davanti ad una scomoda verità: mirare con le freccette direzionali è un crimine contro l'umanità. Scomodo e legnoso, il sistema di mira si dimostra essere una non trascurabile infezione in un gioco che avrebbe le potenzialità per valere di più. Le parti shooting falliscono nel loro intento di alleggerire la prolissa narrazione di questo "anime interattivo", diventando solamente un ostacolo da superare con sofferenza. (A causa di ciò, sono stato obbligato a rinunciare a battere il record di Maryl al tiro al bersaglio. Peccato...)
Anche le parti "punta e clicca" non sono da meno, sebbene per motivi diversi. Talvolta per poter procedere con la storia, eseguendo azioni o prendendo decisioni che per noi giocatori paiono ovvie, dovremmo ispezionare tutti i possibili oggetti di scena, pure quelli più inutili, ed esaurire ogni possibile dialogo di ogni npc, frenando così non solo il ritmo narrativo, ma anche la voglia di continuare a giocare.
Altro piccolo appunto, che forse è solamente una mia percezione erronea: non ho trovato molto convincenti le animazioni delle cutscene, sembravano molto cheap.

Quindi Policenauts è un disastro? No, l'ho trovato un bel gioco. La storia, sebbene il finale sembri una parodia di se stesso, è davvero affascinante, con delle trovate geniali e diversi colpi di scena (un po' prevedibili). Il cast è colmo di personaggi memorabili, diversi dei quali verranno riproposti nei futuri Metal Gear, a cui ti affezioni e ti dispiace vederli soffrire.
E poi non dimentichiamoci che il titolo è quasi interamente doppiato, oltretutto in maniera eccelsa, e contiene una buona colonna sonora.

In conclusione, posso dire che Policenauts non è un gioco da buttare, ma sicuramente tra le opere del Maestro Kojima è una delle meno riuscite.

See you space policenauts!

Ho solo delle belle parole per descrivere il nuovo titolo diretto da Luke Pope, già autore di "Papers, please".
Per distacco, RotOD rappresenta, ad oggi, il miglior gioco investigativo presente sul mercato.

In parole povere, lo scopo di questo titolo è quello di individuare tutti i 60 passeggeri scomparsi della Obra Dinn e, esaminando i ricordi dell'ultimo istante di vita di ciascuno di essi, capire chi fossero e quale sia stata nello specifico la loro sorte.

Una volta superata una prima fase un po' guidata, al giocatore viene data totale libertà d'azione nello scoprire le sorti di ogni malcapitato passeggero della Obra Dinn: disseminati per la mappa, grazie ad un intelligente level design, sono presenti un sacco di indizi che, tramite processo deduttivo, portano alla comprensione della verità, simulando in maniera soddisfacente il lavoro di un detective sulla scena del crimine. Le possibili cause di morte sono molteplici e le identità da assegnare a ciascun cadavere sono numerose, ciò significa che le probabilità di azzeccare le risposte "sparando a caso" sono minime e il giocatore è spinto ad usare tutta la logica in suo possesso per poter avanzare nel gioco.
Se ad un primo sguardo graficamente il gioco può sembrare sgradevole e indietro coi tempi, pian piano ci si rende conto della reale bellezza nascosta dietro allo stile artistico retrò che si rifà ai vecchi sistemi macintosh, grazie alla maniacalità con cui sono stati rappresentati i dettagli e al sistema di ombreggiatura e riflesso capace di generare scene mozzafiato.
Da non sottovalutare inoltre il sound design, che in assenza di vere e proprie cutscene animate aveva il compito di immergere il giocatore in ogni ricordo, dandogli punti di riferimento e facendogli capire cosa stesse realmente succedendo. Il doppiaggio è perfetto, la "ciurma" brulica di gente proveniente da ogni parte del mondo con un sacco di idiomi e dialetti differenti. Poi la colonna sonora è incredibile: semplice ma memorabile, con tracce sia di stampo piratesco/marinaresco che cupo e tensivo.

Avrebbe potuto ambire alla perfezione questo gioco, se non fosse per alcuni aspetti che mi hanno un po' infastidito.
Una volta sbloccati tutti i ricordi, spostarsi da uno all'altro per perseguire la propria pista deduttiva non sarà molto comodo, in quanto bisognerà fare passaggi a mio avviso eccessivi e un po' macchinosi.
Un altro problema, che forse ho riscontrato solo io, è che in alcuni casi, a causa dello stile grafico retrò e per sua natura non dettagliato, non è ben chiara la natura della morte della vittima, costringendoti a provare a turno tutte le varie opzioni disponibili, facendoti perdere molto tempo.
La trama nel complesso è sì interessante, ma aveva le potenzialità, sprecate, per essere qualcosa di più "Bloodborniano". La mancanza di veri e propri colpi di scena o di temi più profondi mi hanno un po' deluso.

Tirando le somme, Return of the Obra Dinn è il perfetto esempio di come non sia necessario avere un budget illimitato da AAA e un numero infinito di dipendenti, ma a volte basta una mente geniale e poco altro per creare un'esperienza unica e accessibile a tutti, che non ha paura di sperimentare e sorprendere.
E ora attendo con ansia il prossimo lavoro di Lucas Pope, che già dalle prime immagini sembra l'ennesima esperienza unica, da provare assolutamente.

2018

Gris è un prezioso vaso di porcellana: meraviglioso all'esterno, levigato e fresco al tatto, ma terribilmente fragile e vuoto dentro.

Il gameplay, nonostante le ottime premesse iniziali, risulta insipido e lineare, senza contare il fatto che sia impossibile morire e gli "enigmi" siano un insulto alla nostra intelligenza.
Come suggerisce pure l'autore, una grande fonte di ispirazione per quest'opera è stato il suggestivo "Journey", dal quale Gris replica le - ben riuscite - atmosfere, accantonando però la parte più divertente, ossia quella strettamente ludica.

Fortunatamente, tutto il resto dell'opera è di altissimo livello, dalla storia profonda, anche se non così innovativa, alla colonna sonora, a tratti delicatissima a tratti dura e coinvolgente, fino ad arrivare ad un art design eccezionale, degno di un'esposizione in una galleria d'arte; se si potesse avere una visione completa della mappa di gioco la si potrebbe scambiare per un dipinto vero e proprio.

Gioco non per tutti, ma consigliato particolarmente a chi vuole vivere un'esperienza diversa dal solito, scevra da ogni forma di quella fretta o pressione a cui siamo abituati nella vita di tutti i giorni.

Poteva essere molto peggio di quello che è stato, ma anche molto meglio.
Sicuramente i movimenti del protagonista e le hitbox dei nemici, rispetto al suo predecessore, sono migliorati, ma la struttura "open world" snatura un po' il gioco.
I pochissimi boss presenti rendono questo gioco un po' noioso sul lato puramente ludico. Però le ost sono davvero carine.

Dato che la trama di questo gioco è irrilevante, se siete indecisi, saltate pure questo capitolo di Castlevania. Non se ne sentirà la mancanza, a fronte dei numerosi altri giochi del brand molto più interessanti.

Non serve che stia qui a parlare di questo gioco.
I lati positivi di quello che, senza alcun dubbio, sarà il GOTY 2023 sono troppi per essere elencati tutti.

Tears Of The Kingdom rappresenta meglio di chiunque altro il concetto di Open Wolrd, dimostrandosi capace di eccellere in ogni aspetto del genere. Già lo aveva fatto con il suo prequel, ma TOTK crea uno standard qualitativo elevatissimo di cui tutti i futuri sviluppatori di titoli dal mondo aperto dovranno tener conto, per evitare di creare prodotti nati vecchi e privi di fascino.

Quindi quest'ultima iterazione di Zelda è perfetta?
Purtroppo no, nemmeno un giocone come questo riesce, dal mio punto di vista, a guadagnarsi l'ambito 10/10.
Molti dissentiranno, dunque elencherò due grandi motivi per cui questo gioco sarebbe potuto essere decisamente migliore di quello che è stato.

Il primo motivo è "oggettivo".
Lasciando stare il comparto grafico, che per un gioco "old old gen", sebbene abbia texture arretrate e siano visibili pop-up a schermo, è MIRACOLOSO, il problema più grande del gioco si va ad individuare, come per il predecessore, nella trama. Non stiamo giocando ad un Metal Gear Solid, ok, ma Zelda ci ha abituati in passato a storie intriganti, misteriose, dai risvolti talvolta horror talvolta epici...
Nulla di tutto questo compare in TOTK.
Parliamoci chiaro, la storia è banale e lineare e quei pochi passaggi un po' più coraggiosi sono relegati a ricordi del passato con cui non possiamo in alcun modo interagire, ma solamente visionare tramite filmato. I personaggi, tranne poche eccezioni, risultano scialbi, privi di una qualsivoglia profondità psicologica. Le loro storie, così come la storia in generale del gioco, non lasciano al giocatore alcun messaggio degno di nota, se non "Il male fa schifo, toglilo di mezzo. Se hai degli amici il tuo compito è più veloce."
Ripeto, so bene che TOTK è un gioco per tutte le età, quindi deve essere appetibile pure per un bambino di 5 anni, però non si è fatto un reale sforzo per creare qualcosa di interessante (a livello di trama) anche per il videogiocatore più grandicello.
Grande peccato, perché dalle premesse sembrava si fosse tornati ad un Twilight Princess o ad un Majora's Mask, o anche ad uno Skyward Sword. Occasione persa.
Ah, poi ho trovato di pessimo gusto il riciclo di boss, anche di quelli principali. Si è criticato molto Elden Ring per questo, ora tocca a Zelda.

Il secondo motivo è più "personale".
Già con BOTW ne avevo il sentore, ma ora ne ho la certezza. Nintendo vuole rebootare la saga, rivoltarla da cima a fondo dandole nuova linfa vitale. Link, Zelda, Ganondorf e la Master Sword rimangono, il resto cambia. Niente triforza, niente dungeon classici, niente oggetti chiave da sbloccare con l'avanzare della storia, niente struttura "epica", niente abiti verdi dell'eroe (se non quelli collezionabili). Addirittura hanno scelto di aggiungere una nuova razza, gli Zonau, mai menzionata prima, nemmeno in capitoli importanti a livello di lore come Skyward Sword, che qui viene presentata come fondamentale per la storia di Hyrule (i discendenti della famiglia reale sono nati da un'unione tra essere umano e capra? Okaaay Nintendo...).
So bene che questo non è un vero difetto, ma dentro di me non riesco ad accettare questo cambiamento, ancora non sono pronto ad abbandonare una delle mie saghe preferite, con cui sono nato e cresciuto e il taglio così netto che Nintendo ha fatto con il passato mi ha segnato particolarmente.

Tirando le somme, The legend of Zelda: Tears of the Kingdom è da giocare?
Assolutamente sì, sia per i neofiti che per gli appassionati di lunga data. Il cambiamento è doloroso, ma necessario, se si vuole stare al passo coi tempi in ambito videoludico.
Ora e sempre, lunga vita alla saga di Zelda!

Carina visual novel horror.
Viene trattato un tema sociale particolarmente delicato in maniera particolarmente interessante, ma la scarsa longevità e la quasi totale mancanza di interazione da parte del "lettore", rende questo gioco dal titolo improbabile meno incisivo di quello che sarebbe potuto essere nel mercato indie.

Però apprezzo molto il coraggio di sperimentare da parte dell'autore. Gioco consigliato a tutti.

Colonna portante del genere, insieme al suo predecessore.
Più che un sequel, DOOM II è una versione migliorata e meglio confezionata del primo DOOM, che è una sorta di raccolta di livelli pubblicati online su vari forum dell'epoca.

Dal prequel cambia poco. I nemici sono pressoché gli stessi, con qualche aggiunta basata su modelli preesistenti, e il gameplay rimane immutato: per avanzare nel gioco devi utilizzare ogni arma a disposizione per massacrare tutto ciò che si muove, nella speranza di trovare una chiave (o teschio) colorata per sbloccare la fantomatica porta che conduce alla fine del livello.
In DII le mappe da affrontare saranno 30, più due segrete di bonus, e la sensazione di appagamento nell'uccidere i demoni infernali rimane immutata rispetto al predecessore. Come sempre, inoltre, i movimenti del doomguy sono molto veloci e fluidi, questo a beneficio di un gameplay dinamico e libero nei movimenti.

L'unico, grosso, problema che ho riscontrato risiede nel modo in cui bisogna trovare la strada per avanzare. Non sempre, infatti, basterà uccidere tutti i nemici per vincere, ma occorrerà, come detto in precedenza, trovare le tre chiavi colorate che, spesso e volentieri, sono nascoste in luoghi apparentemente inaccessibili, se non tramite percorsi del tutto casuali, privi di ogni qualsivoglia indizio visivo; questo ha più volte interrotto il flusso di gameplay, rendendo certe sezioni di gioco molto noiose e frustranti.
Ho trovato anche il boss finale molto confusionario, poco in linea con lo standard qualitativo dei precedenti livelli.

Comunque sia, se siete amanti degli sparatutto - ma tutto tutto -, non potete lasciarvi scappare questa perla.

Oggi mi sono recuperato un grande classico videoludico: "Castlevania", incluso nella raccolta "Anniversary Collection".
Gioco molto breve ma densissimo di azione, in cui il giocatore deve mantenere alta la concentrazione per tutto il tempo se desidera completare anche solo un livello. La presenza di molti nemici a schermo rende molto complicato l'avanzare del personaggio nella mappa; senza una tattica, e un po' di fortuna, il giocatore andrà incontro a numerosi morti.
Ogni livello contiene numerosi segreti, che possono dunque rappresentare uno stimolo per esplorare al meglio la mappa e setacciare ogni mattoncino o candela in cerca di cure o potenziamenti (fondamentali!).
Tuttavia, il fiore all'occhiello di questo gioco, dal mio punto di vista, è rappresentato dalla colonna sonora, eccellente in ogni parte e incalzante nei momenti più concitati.
La valutazione sarebbe benissimo potuta essere di quattro stelle, ma il movimento del personaggio è parecchio legnoso, le animazioni non possono essere interrotte o modificate nella direzione e le hitbox dei danni nemici sono molto più grandi del dovuto.

L'altissimo livello di difficoltà, unito a certe difficoltà tecniche, rende Castlevania un gioco non accessibile a chiunque, a me in primis, ma nonostante tutto ogni appassionato di videogiochi dovrebbe mettere da parte le proprie reticenze e cercare di appianare le proprie difficoltà per portare a termine uno di quei giochi che hanno saputo porre le basi per gran parte del gaming moderno.

Rigiocato anche questo di recente.
Rispetto al primo MG, questo gioco contiene un minimo, ma affascinante, accenno a quella che sarà, dall'epoca PS1 in poi, la vasta e intricata lore della Metal Gear Solid saga.
La trama è dunque molto interessante, condita da un sacco di colpi di scena, momenti toccanti e personaggi tutti affascinanti.
Ciò che ho preferito meno invece è il gameplay; è vero, le meccaniche di gioco sono rivoluzionarie per l'epoca e danno vita ad una grande varietà di contesti unici e situazioni particolari, però l'eccessiva lentezza dei movimenti e il costante backtracking sgonfiano l'entusiasmo di qualsiasi videogiocatore moderno, interrompendo costantemente il flusso di narrazione.
Ma questo era solo un riscaldamento. La vera partita sarebbe incominciata dieci anni più tardi, con l'avvento di PS1...

Rigiocato dopo tanto tempo. Non è invecchiato nel migliore dei modi, ma rimane comunque un gioco estremamente godibile e divertente. Padre di tutti gli stealth.

In un periodo storico carente di novità, in cui tutto è la copia di tutto, Cult of the Lamb spicca per la sua freschezza di contenuti.
Sia chiaro, il gioco non ha rivoluzionato nulla, anzi, prende forte ispirazione da altri generi ben noti, tuttavia riesce a mescolarli in maniera davvero intelligente, andando a creare un gameplay divertente e vario.

Cult of the Lamb si propone come una commistione di due macro generi, ovvero il gestionale e il rougelite, entrambi approfonditi in maniera soddisfacente e mai sovrapponibili. Mi spiego meglio: sebbene sia la parte gestionale, estremamente varia e personalizzabile, che quella più action siano fondamentali per il proseguimento del gioco, il giocatore può decidere a quale dedicare più attenzione, senza che l'altra diventi un grande impedimento. Inoltre, se si volesse prendere una pausa da tutto, ci sarebbe anche una terza opzione, rappresentata da alcuni minigiochi (anche se non molti) che si sbloccano nel corso dell'avventura.
Come ho già accennato prima, la sezione gestionale è ricca di cose da fare, di edifici da costruire, di decorazioni con cui personalizzare il proprio "villaggio" etc. L'unico problema in tutto ciò è la relativa facilità con cui viene sbloccata ogni creazione o potenziamento, grazie alla quale riesci ad ottenere tutto a neanche metà del gioco.
La sezione rougelite è molto apprezzabile, sebbene non ci sia una grande varietà di armi o di power up, e il gameplay solido e appagante. Inoltre, possiede un livello di difficoltà tendenzialmente basso ma con qualche picco durante alcune bossfight di fine dungeon.
Lo stile artistico è pazzesco, molto carino e colorato, con una cura per i dettagli abnorme. Ho trovato poi molto interessante il design dei personaggi principali, ognuno con una storia da raccontare su di esso.
La trama di questo gioco è piuttosto semplice e prevedibile, ma il modo in cui viene narrata, con un lessico aulico e toni solenni, riesce a dare l'impressione che si tratti di qualcosa di più profondo. Peccato solo che non sia stato localizzato in italiano, perché con questi dialoghi complicati inevitabilmente qualcosa si perde nella traduzione istantanea.

In sostanza, Cult of the Lamb è un indie molto interessante, tenero e divertente, capace di fornire al giocatore sia momenti più rilassanti e riflessivi sia momenti intensi, nei quali essere messi alla prova senza mai sfociare nell'hardcore (anche a difficoltà elevate). Se non fosse per i temi controversi, come il satanismo e il "gore", presenti all'interno dell'opera, lo consiglierei a chiunque. Perla indie da non farsi assolutamente scappare!

Grazie ad una traduzione fan made (but well made) uscita negli ultimi giorni, mi sono convinto a provare questa vecchia avventura grafica targata Hideo Kojima.
Sin dall'introduzione si palesa la profonda ispirazione verso il celebre film fantascientifico "Blade Runner", che tuttavia non sfocia mai nel becero plagio. La storia di Snatcher prende una piega unica e affronta temi differenti, quali il sospetto, la diffidenza verso il prossimo ma anche, in maniera opposta, la fiducia.
Come in ogni lavoro di Hideo, in questo gioco vengono fatte numerose citazioni al suo precedente lavoro (Metal Gear) e al mondo videoludico in generale, in particolare a quello che orbitava intorno a Konami e Sega ed è stato parecchio divertente cercare di individuarne il più possibile.
I dialoghi sono tantissimi, studiati in ogni minimo dettaglio e variabili a seconda delle azioni compiute dal protagonista fino ad allora.
A livello tecnico era un gioco all'avanguardia, molto dettagliato nella rappresentazione degli ambienti, dei personaggi e delle loro animazioni.
Inoltre, su Snatcher era presente un vero e proprio doppiaggio, fatto pure bene, che all'epoca lo rendeva un gioco unico.

Mi ha sorpreso molto il fatto che nonostante sia un'avventura grafica, con forti elementi di avventura testuale, Snatcher sia al contempo un action. Ci saranno infatti diverse fasi shooting che metteranno in difficoltà i giocatori meno preparati. E non solo. Purtroppo, queste ultime non sono ben rifinite, spesso i nemici a schermo sono troppi, non si possono schivare e talvolta, nelle fasi più concitate, i colpi non vanno a segno nonostante la mira sia precisa.

Ottimo gioco, peccato sia relativamente breve. Avrei voluto giocare di più nei panni di Gillian Seed e in compagnia di tutti gli altri personaggi, ben scritti e a cui non ci si può non affezionare.
Consigliato a chiunque, old but gold.

Uno degli indie migliori di sempre, soprattutto considerando che si tratta di un'opera prima.
Con tutti i suoi aggiornamenti, Hollow Knight si presenta come un gioco pregno di contenuti, divertenti e impegnativi, che sapranno mettere alla prova corpo e mente del giocatore.
L'esplorazione della mappa di gioco è sempre premiata e densa di segreti, tali da far sempre scoprire qualcosa di nuovo al giocatore, anche dopo aver terminato la main quest.
Ogni mappa di gioco è unica e caratterizzata in modo sempre interessante, con un'attenzione ai dettagli di background maniacale. Personalmente non ho molto apprezzato la tendenza ad usare quasi sempre colori molto cupi e freddi, ma alla fine rimane in tema con il titolo e l'ambientazione.

Dal punto di vista del genere si tratta di un Metoridvania con tendenze al souls-lite, un'unione di elementi già visti in molte opere analoghe del passato, perciò HK pecca un po' di originalità.
Nel gioco sono presenti moltissimi personaggi con cui dialogare e da cui poter comprendere meglio la lore del gioco, ma non tutti risultano egualmente interessanti, fino ad arrivare a trovare personaggi del tutto abbozzati.
Un altro problema riscontrato, dovuto probabilmente ad un filo di inesperienza dei giovani sviluppatori, riguarda l'interconnessione delle zone; alcune di esse sono parecchio distanti da ogni viaggio rapido e per raggiungerle il giocatore deve ogni volta percorrere un lungo tragitto pieno di ostacoli, il che spegne un po' l'entusiasmo dell'esplorazione, rendendola in certi punti tediosa e ripetitiva.

Al netto di non troppo gravi difetti, Hollow Knight si presenta come un videogioco imperdibile per gli amanti del genere e, perché no, anche ad un pubblico più casual. Occhio a non sottovalutarlo però, altrimenti certe bossfight potrebbero mettervi in seria difficoltà!

Delusione. Delusione totale.
Paradise è il quarto gioco diretto da Benoit Sokal, uscito 3 anni dopo Syberia II.
La storia affascinante, in cui una giovane avventuriera si vede costretta a compiere un viaggio nei meandri più nascosti ed esotici di uno sconosciuto paese situato nel cuore dell'Africa, viene del tutto vanificata da un comparto tecnico altamente insufficiente.
Non parlo solamente di glitch grafici, come distorsione delle ombre o compenetrazione con gli elementi di sfondo, ma di intere sezioni di gioco programmate talmente male che persino il gioco stesso ti fornisce la possibilità di skippare. Ma fosse solo questo il problema...
Purtroppo più volte, nel corso del mio gameplay, sono incappato in bug così gravi da non permettermi di proseguire nel gioco. Per fare alcuni esempi, non potevo salire una scala che subito venivo riportato giù da essa, oppure non potevo iniziare un dialogo con un personaggio fondamentale per l'avanzamento del gioco, o peggio ancora non potevo più muovermi, non importa dove cliccassi.
Letterlamente ingiocabile.
Grazie a questo, unito ad un gameplay piuttosto semplice e banale e ad un comparto tecnico non esaltante pure per l'epoca, Paradise merita un'insufficienza. Non lo consiglio neanche ai fan del genere. Che spreco.